di Luigi Pratesi
C’è una nuova figura nell’editoria: il sensitive reader o, per dirla con la nostra lingua, il lettore sensibile.
La prima volta che si sente parlare di loro si potrebbe pensare che i lettori sensibili non siano altro che quelli più emotivi, che più facilmente si lasciano andare alle lacrime, alla rabbia, che si immedesimano a tal punto con i personaggi da rinunciare al riposo della notte per vivere magnifiche esperienze assieme ai protagonisti delle storie che amano leggere.
Non è così.
Il sensitive reader, o sensitivity reader come talvolta viene chiamata, è una figura più o meno professionale che sta riscuotendo sempre più successo nel mondo anglosassone e, ultimamente, pure in Francia.
Sì, ma cosa fa di preciso?
Emenda i testi altrui da tutto ciò che non è politically correct, inclusivo, allineato alla sensibilità contemporanea. In altre parole può integrare la figura dell’editor prima che un testo venga pubblicato – e allora il suo compito consiste nel rendere quel testo esente da critiche di razzismo, sessismo, omofobia, grettezza, ecc. – oppure può svolgere la propria professione sui testi già pubblicati riscrivendo la storia, in senso letterale, o più probabilmente sostituendo parole qua e là per non offendere la sensibilità di nessuno (o almeno provarci).
Tale figura è stata utilizzata dalla casa editrice americana Harper Collins, che tra gli altri pubblica Agatha Christies, per modificare i passaggi a loro dire più controversi dei gialli con protagonista Miss Marple. Ma non è questione di sessismo, ci mancherebbe, non sono sfuggiti alla revisione neppure alcuni testi dell’altrettanto noto Hercule Poirot.
Ecco dunque che la parola “nativo” diviene “del luogo”, mentre alcune caratterizzazioni (come “ebreo”, “zingaro” e “negro”) scompaiono del tutto. Solo per fare alcuni esempi.
Ma non mancano casi neppure nella nostra cara e vecchia Europa che, come ultimamente è solita fare, non perde occasione per importare le nuove tendenze di oltreoceano. La casa editrice inglese Puffin Books ha pubblicato le opere di Roald Dahl (La fabbrica di cioccolato, Il GGG, Matilda, ecc.) in una versione rivisitata, dove la parola “grasso” si trasforma in “enorme”, l’espressione “faccia da cavallo” viene eliminata, e così via. A titolo di verità occorre però dire che, dopo le critiche piovutele addosso, la casa editrice ha deciso di ritornare parzialmente sui propri passi e pubblicare le opere nella doppia versione, emendate e originali. Decisione, a ben vedere, che più politically correct non si può.
Tale tendenza ricorda molto quella che ebbero i papi allorquando, secoli or sono, decisero di ornare con splendide e rigogliose foglie di fico i quadri e le statue del Vaticano, per coprire le falliche nudità dell’uomo. Decisione ispirata da pudore e santità e volta certo a non indurre alcuno in tentazione, ma tutt’ora alquanto criticata, ove non proprio ridicolizzata, da critici d’arte, professori e pure dai comuni cittadini.
Per tornare al genere letterario si può rammentare che nel 1935 la Mondadori fece una cosa simile proprio alla povera e bistrattata Agatha Christie. Due personaggi italiani del suo Assassinio sull’Orient Express, siccome non erano tanto brave persone e non si poteva dare questa impressione della superiore razza italica, cambiarono improvvisamente nome e nazionalità. Così come spuntarono qua e là commenti antisemiti che poco avevano a che fare con l’autrice o i suoi personaggi.
Insomma, a seguir questa logica benpensante, autori come Charles Bukowski andrebbero messi al bando, se non al rogo, perché per loro non c’è via di redenzione, neppure con tutta la buona volontà e l’impegno del migliore tra i sensitive reader.
Ma perché tutta questa paura delle parole?
Davvero il linguaggio che elimina i generi, discrimina (nel senso di sceglie, ma anche di esclude, fate voi) alcune parole o concetti aiuta l’inclusione?
Già sul finire del secolo scorso, o all’alba del nuovo, sparì improvvisamente la professione dello “spazzino”. Al suo posto apparvero il netturbino prima e l’operatore ecologico poi. Ora, cosa c’è di male nel fare di mestiere lo spazzino? È un lavoro nobile come tanti altri, aiuta tutti noi a vivere in un ambiente più pulito, ordinato e privo di odori nauseabondi. È un lavoro che consente di stare all’aria aperta, che ha forse orari un po’ disagevoli, ma non certo per questo meno rispettabile.
Siamo sicuri che la connotazione negativa data alla parola “spazzino” non discenda proprio da quel pudore nel pronunciarla? Negandone la legittimità non si sta forse insinuando che non sia un lavoro rispettabile? Se quello che si intende fare è dare dignità all’uomo (o alla donna) che si occupa di pulire i luoghi pubblici basta rendere il suo lavoro più confortevole, con orari meno sfiancanti o logoranti, lo si retribuisce meglio, ne si esalta l’utilità sociale, non si ghettizza il nome della sua professione senza cambiare di una virgola le sue mansioni o la sua condizione lavorativa. Non trovate?
La parola è una cartina che avvolge un concetto, un significato. Cambiarla non risolve il problema, anzi lo acuisce perché nel momento in cui io non so più dare un nome a quel senso bieco, istintivo, primitivo, vergognoso che in misura variabile alberga dentro ciascuno di noi e che si chiama egoismo, rabbia, paura del diverso, strafottenza e chi più ne ha più ne metta, allora io non so più nemmeno riconoscerlo e, così facendo, non ne posso diventare consapevole e porvi rimedio. Il primo passo per risolvere un qualsiasi problema è sapere che c’è, non far finta che non esista e bandirne anche solo la menzione.
Confondere il recipiente lessicale con il contenuto è ciò che crea una cultura del proibito senza eliminare in alcun modo i vizi umani, esattamente come rendere fuorilegge le case chiuse non ha abolito la prostituzione o come il divieto dell’uso di stupefacenti non ha fatto cessare la produzione, la vendita e il consumo delle droghe.
Le Monde sostiene che i sensitive reader sono necessari “affinché l’industria, in maggioranza bianca e privilegiata, prenda coscienza dei propri pregiudizi razzisti, sessisti, omofobi”. Se questo è lo scopo, come può il solo omettere o alterare espressioni come “razza”, “negro”, “ebreo”, ecc. aiutare i razzisti a prendere coscienza della propria limitatezza?
Senza contare che quei termini sono spesso usati perché comuni nel momento storico in cui l’autore scriveva (e quindi senza alcun intento offensivo) o addirittura provocatoriamente messi in bocca a personaggi di bassa statura morale proprio per enfatizzarne la grettezza. Forse, allora, bisognerebbe concentrarsi meno sulle parole e di più nel prendere i libri, i personaggi e le storie che leggiamo come uno specchio di noi stessi per riconoscere i nostri piccoli egoismi e le nostre paure, così che le si possa trascendere, con la libertà di usare le parole che più si ritengono funzionali, nella consapevolezza che omnia immunda immundis (tutto è impuro per gli impuri) o, con meno retorica, la malizia spesso è negli occhi di chi guarda.
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