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La geometria del romanzo biografico, con Giorgio Bernard

di Caterina Corucci

Circa un mese fa ho assistito allo spettacolo “Benedetta e Niccolò”, a Empoli, tratto dal libro omonimo di Giorgio Bernard. Ci sono andata sia perché parla di un argomento che ha a che fare con il mio lavoro, sia perché conosco l’autore, ha editato il mio romanzo.

Ma c’è anche una cosa, ed è quella di cui voglio scrivere oggi, il sottotitolo del libro in questione è “Una storia vera d’amore e autismo”; a pochi anni fa risale l’uscita dello stesso autore di “Come un’onda che si tuffa sullo scoglio – La vera storia di Roberto Tancredi”; il 20 aprile uscirà “Mio nonno Roberto Anzolin”, per il quale ha lavorato come editor. Bernard scrive delle vite degli altri. I suoi sono romanzi biografici, non biografie. E a me, che ho appena scritto una cosa del genere senza nemmeno sapere come catalogarla, interessa approfondire l’argomento.

Quindi qualche giorno fa ho raggiunto Bernard nella sua casa a Castiglioncello, sulla costa poco sotto Livorno, in una domenica di maestrale di quello forte.

Giorgio è un tipo affabile, alla mano, mi ha accolto nel bianco del suo salotto e, vista l’ora, mi ha offerto un superbo piatto di spaghetti alle arselle che ha cucinato lui stesso. Mi offre anche, dalla grande finestra, la vista di nuvole strappate che corrono verso il mare. Dopo pranzo ci mettiamo al tavolo, la bottiglia di vino bianco ancora fra di noi, bloc notes, computer. Vado dritta al punto:

Che differenza c’è fra biografia e romanzo biografico?

Per scrivere una biografia devi raggiungere la verità dei fatti, bisogna essere Enzo Biagi, spaccarsi fino all’atomo per raccontare tutta la realtà, date, numeri, eventi assolutamente documentati e veri. Raccontare la biografia è problematico perché un essere umano comunica la propria esperienza per derivazione.

Bernard, come dicevo, è un tipo alla mano ma estremamente professionale. Prende il blocco e abbozza un iceberg. Mi spiega:

Vedi – mi dice indicando la parte affiorante dell’iceberg – questa è la parte della persona che è visibile: un condensato di quello che lui ritiene spendibile socialmente, ma la sua identità sta sotto. Quando lui comunica con te, deriva. Deriva i suoi sentimenti, emozioni, esperienze, attraverso un procedimento di emersione del vero che è fatto di: semplificazione, assolutizzazione, mistificazione.

Spiegati meglio…

Quando tu intervisti una persona lui esprime anche concetti semplificati, vengono fuori cose che non sono vere. Fa una derivazione in superficie di quello che ha dentro. Per ricondurlo al vero se stesso, l’intervistatore deve fare un processo di transderivazione. Scavare nell’iceberg per trovare il nocciolo di quello che ti dice, che è ciò che ti serve per scrivere la sua storia.

Quando una persona racconta la sua storia difficilmente te la mostra. Per mostrarla te la racconta e porta a emergere cose che ha vissuto, come un sopravvissuto da un incidente aereo. Ma la cosa è già superata e viene restituita derivata. Chi intervista deve scavare per capire, ma quello che viene fuori è sempre qualcosa di adulterato, e per questo, quando intervisti, devi sapere che la comunicazione, chi parla, è assolutamente inaffidabile. Chi intervista, che sia il biografo o lo scrittore di romanzi biografici, deve costringere l’intervistato a rifare il processo al contrario: transderivare.

E questo è tanto più difficile quando si parla di autobiografia. Le cose vissute passano attraverso un tribunale che porta quasi sempre a un’autoassoluzione. È quasi impossibile autoderivarsi da soli.

La biografia non è narrativa, è più tecnica, tu puoi dire : “alla luce delle fonti è ragionevole pensare che…” Non c’è nessuno spazio lasciato alla creatività.

E nel racconto biografico, invece, cosa vuoi raccontare?

Nel racconto biografico, io scrivo le mie emozioni, quelle che vengono fuori dall’osservazione. Non sono come Enzo Biagi che spacca l’atomo per raggiungere la verità effettiva, io prendo le mosse da una verità effettiva e vado oltre, per raccontare i miei sentimenti. Voglio raggiungere un lettore ideale, come per il libro su Tancredi, dove volevo raccontare la storia di un uomo che dà la vita per una squadra e poi viene tradito. In quel momento c’ero dentro io, che quasi allo stesso modo sono stato tradito dall’azienda per cui lavoravo. Erano le mie sensazioni personali quelle che descrivevo.

Poi mi legge un brano del libro, è un racconto di Tancredi, ci sono anche dialoghi.

Vedi, a me non interessava sapere se erano cose realmente accadute oppure no, nel romanzo biografico non cerchi la verità, ci sono elementi biografici, ma tu racconti una storia.

L’intervistato non è padrone di quello che viene scritto e deve essere avvertito che quello che mi dice verrà utilizzato per quello che voglio dire io. Il libro non parla della vita di Tancredi, parla di una persona tradita, abbandonata. Ho scritto le parole che venivano dette da lui, sì, ma il non detto e il vibrante che sta sotto sono farina del mio sacco. Io stavo parlando a chi ha perso il lavoro dopo dodici anni alla Standa, a tutti quelli che si sono sentiti traditi.

E parlando poi di Tancredi, che da ragazzino si è trovato ad avere un posto di grande peso nella squadra, io parlavo a quelli che si chiedono: mi merito questo posto? Tancredi è uno che in quel momento non sa se è all’altezza della situazione e dice: speriamo che non mi scoprano. È la storia di un uomo normale. A quanti è capitato di sentirsi così? Ecco: io in quel momento scrivevo per loro, non volevo raccontare la storia di un campione, perfetto e inarrivabile.

Parliamo di Benedetta e Niccolò, una storia difficile da raccontare.

Prima di iniziare il libro ho letto una ventina di testi sull’autismo.

Gli autistici non derivano e non transderivano. Ho parlato con molte persone rientranti nello spettro autistico, con un sacco di loro genitori. Questi raccontano il proprio trauma, la loro esperienza di sopravvissuti. Come ho già detto, tutto questo non mi interessava. Volevo raccontare lo schock di chi si scopre genitore di un bimbo autistico, in presa diretta e non riferito da chi tale esperienza l’aveva già vissuta e in qualche modo metabolizzata. Volevo raccontare il mio stesso shock. Una cosa simile all’elaborazione del lutto. E per farlo mi sono rifatto anche alla mia esperienza di volontario di cure palliative.

Qui Bernard si emoziona, la voce trema, si ferma un attimo. Lui pensa alle sue esperienze, io penso ai bambini con problemi che incontro a scuola, alle difficoltà che ho con i genitori nell’accompagnarli durante la presa di coscienza.
Facciamo una sosta. Parliamo delle fasi dell’elaborazione del lutto. Perché è di questo che si tratta.
Bernard riprende:

Volevo raccontare cosa vuol dire svegliarsi genitore con un bambino autistico.
Mettere il lettore nelle scarpe di Benedetta, mi sono fatto traumatizzare per vivere in prima persona quello che né il bimbo né la madre mi avrebbero mai potuto raccontare. Ho cercato di vedere il mondo con gli occhi di Niccolò. Ho vissuto accanto a lui per un anno.

Volevo raccontare a qualunque genitore che si trova a dover affrontare tutto questo e anche a te che non ne sei toccata direttamente, dire quello che devi sapere. Quasi una terapia sociale.

E ho cercato di parlare attraverso il mio shock anche a te genitore che hai la fortuna, e non lo sai, di non avere un bambino autistico. Adesso non puoi più ignorarlo.  

Un aspetto tecnico, riguardo alla narrazione: nel romanzo biografico meglio scrivere in prima, seconda o terza persona?

Vanno bene tutte, è una storia. Ovviamente scrivere in prima ti dà più responsabilità ed ecco perché in alcune parti di Benedetta e Niccolò ho usato la seconda. Ma in ogni caso… è tutto finto.

A questo punto penso al mio romanzo, dove ho attinto a una storia vera per dire cose che volevo dire, per leggermi attraverso una storia, e ripenso a quando mi fermai, bloccata dalla domanda: che diritto ho io di usare un dolore vissuto da alcune persone, per dire quello che voglio dire? E da qui nasce la mia prossima domanda a Bernard:

Se le storie di cui parli ti servono per dire quello che hai da dire, perché non inventartene una di sana pianta? Perché usare le storie degli altri?

Perché perdere l’occasione di mettersi nei panni degli altri? Sarebbe un incredibile spreco. Ogni persona, neuro tipica o meno che sia, ha una tale ricchezza di esperienze e valori da raccontare… e il più delle volte le mancano gli strumenti per farlo, per comunicare agli altri qualcosa di estremamente prezioso, capace di arricchire qualunque vita. Ecco: credo che il mio ruolo consista proprio in questo, è una specie di missione che sento appartenermi. Fare da tramite fra chi ha delle storie da raccontare e chi da tali storie potrebbe trarre un essenziale arricchimento. Se ci pensi bene, è o non è la stessa cosa che faccio come editor? A servizio di chi scrive, in modo che il suo messaggio possa arrivare forte e chiaro a chiunque possa aver bisogno di ascoltarlo.

Un’ultima domanda: hai scritto romanzi biografici, hai scritto romanzi interamente di fantasia, lavori come editor. Quale delle cose ti piace fare di più?

Editare mi piace molto, per me è gioia pura. Per quanto riguarda scrivere, invece, sicuramente con i romanzi biografici è più facile, ci sono i paletti. In catene si scrive meglio. E comunque – sorride – non mi piace scrivere. È dura, nel senso di… sofferenza. A volte è terribile.

Perché lo fai, allora?

Perché bisogna.

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