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Resistere alla dimenticanza: il Piccolo Museo del diario

di Caterina Corucci

Forse vi sarà capitato di trovare in soffitta, o nel cassetto di una vecchia scrivania, le lettere d’amore dei nonni o quelle di uno zio emigrato oppure, nascosto tra i libri della casa da sgomberare, il diario di vostra madre, che scrisse quando era ragazza.

Ecco, c’è un posto dove, se vorrete, questo materiale può essere custodito. E dove anche le pagine della vostra vita potrebbero diventare un patrimonio nazionale. Si tratta dell’Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano, che racchiude ad oggi circa diecimila diari.

Diari che un giorno Mario Perrotta decise di sistemare sugli scaffali in ordine alfabetico, l’unico modo per riuscire a ritrovarli facilmente, imponendo però difficili convivenze a vite diversissime. Capita così che il diario della monaca Bianchi Carla sia vicino a quello della prostituta Bianchini Sofia, o che quello del fascista Mazzi Francesco sia attaccato a quello del partigiano Mazzoni Piero. Si dice che il fruscio che qualcuno sente provenire la notte dalle stanze dell’archivio, sia dovuto ai diari che si spostano cercando anime a loro più affini, per poi tornare al loro posto, prima dell’alba.

La storia di questo luogo incredibile iniziò nel 1984, quando il giornalista Saverio Tutino istituì il Premio Pieve. Chiunque si trovasse in possesso di una biografia inedita, lettere o diario che fosse, poteva inviarla. La più interessante vinceva la pubblicazione. Oggi siamo alla trentottesima edizione e i diari inviati sono sempre di più. Adesso ne vengono selezionati cento all’anno e poi otto finalisti. Tutti vengono letti con attenzione e, in ogni caso, archiviati. Molti concorrono a formare la memoria di questo paese.

Alcuni diari vengono inviati dagli autori solo per essere custoditi, altri hanno una sorta di sigillo a scadenza: chi lo invia desidera che siano letti soltanto nell’anno da lui indicato. Magari dopo la sua morte.

Lessi di questa storia tanti anni fa e mi incuriosì non poco, poi me ne dimenticai fino a poche settimane fa, quando ho sentito parlare del Piccolo Museo Del Diario di Pieve Santo Stefano. Sbagliando l’ho identificato con l’Archivio, quindi ho prenotato la mia visita ma, oggi, arrivata sul posto, ho trovato una cosa completamente diversa da quella che mi aspettavo. Quando mi hanno detto che al Museo non avrei trovato i diari, la tentazione è stata quella di andarmene, delusa.

Invece, per fortuna sono rimasta.

Il Piccolo Museo è davvero piccolo ma racchiude un mondo, ed è diverso da tutti i musei che ho visto. È strano perché per esaltare un materiale nostalgico e romantico come possono essere le storie del passato, si avvale delle tecnologie più moderne. Qui, grazie alla realizzazione di uno studio multidisciplinare di Milano, i Dotdotdot, ci sono stanze piene di suoni e immagini, riproduzioni digitalizzate, video e voci che raccontano le storie.

Eppure i diari non sono qui. Tranne due, e sono davvero incredibili.

Il primo lo incontro subito nella stanza che sarebbe l’ultima, ma che io visito per prima. Entrando si avverte qualcosa di surreale. Nella penombra, voci sottili, oggetti bianchi appesi a fili di metallo. In fondo, ad occupare una parete intera, un lenzuolo due metri e mezzo per tre, come una pagina immensa, riempito da cima a fondo in calligrafia ordinata. È il diario di Clelia Marchi che, finita la carta, prese a scrivere sul lenzuolo nuziale il diario della sua vita e del suo grande amore. Saverio Tutino mai si sarebbe aspettato che il fagotto di stoffa recapitato all’Archivio fosse quello che poi si rivelò.

Le cose bianche sospese nella stanza sembrano copie di oggetti di uso quotidiano, in realtà custodiscono voci; quando mi ci avvicino parte la lettura di stralci del diario di stoffa, mentre sui muri scorrono foto in bianco e nero, come fantasmi.

Ancora emozionata dal lenzuolo passo nella stanza seguente e mi trovo davanti al diario dattiloscritto del bracciante agricolo Vincenzo Rabito. Mi vengono messe in mano alcune pagine e, stento a crederci, si tratta di quello che poi è diventato il bestseller Terra Matta. Scritto con l’anima, in un siciliano così autentico e stretto che se provo a leggerlo inciampo di continuo; mi sembra davvero astruso, ma quando da un posto indefinito della stanza parte la lettura del testo, è musica. Nella pubblicazione, come per ogni altro diario che diventa libro, niente è stato cambiato del testo originale, neanche gli errori di sintassi. Niente è stato corretto, editato. È stato tolto soltanto, per facilità di lettura, quel segno di interpunzione, un punto e virgola che Rabito mise ogni una, due parole, chissà perché. Lo posso vedere con i miei occhi sulla pagina scritta da lui, e mi commuove.

In un’alta stanza c’è una parete piena di cassetti. Uno per ogni manoscritto. La guida apre quello in terza fila, a destra, viene proiettata la pagina, si sentono le voci che la leggono. In un altro cassetto ci sono gli originali di alcuni fogli davvero singolari. L’autrice aveva poca carta a disposizione e scrisse, sulla stessa facciata, prima in un senso e poi in un altro, parole sovrapposte ma in direzione diversa, un intreccio di inchiostro oltre che di vita vissuta.

La guida ci tiene a chiarire che nella selezione dei diari non c’è nessun giudizio morale. Un anno fu premiata la biografia di un rapinatore di banche, che era figlio da una rapinatrice di portafogli sui tram. Insomma vincono le storie, le anime, i sentimenti.

Quando esco dall’ultima stanza chiedo: ma i diari, i diecimila diari… dove sono?

Mi viene risposto che non sono qui al Museo ma nell’Archivio Nazionale, nella piazza accanto. Però non si possono vedere così, ci vuole una motivazione che può essere una tesi, una ricerca, E poi, in ogni caso, occorre un appuntamento.

Allora dico che sono qui per la rivista Offline e che devo fare un articolo, e lo so che non ho l’appuntamento, però ho fatto quasi trecento chilometri e insomma… Insisto un po’ e, alla fine, la guida fa una telefonata e va bene, posso andare.

L’archivio Nazionale è nella piazza adiacente a quella del Museo, ci arrivo in tre minuti. Per le scale pregusto l’odore di pagine ingiallite e spero di poter fotografare qualcuna delle più interessanti. Invece niente di tutto questo.

La segretaria che mi accoglie mi dice subito che non potrò visionarli, men che meno fotografarli. Però, se la seguo me li fa vedere sugli scaffali.

Eccoli. File di contenitori di plastica rossi. Tutti uguali. Nessun odore di pagine vecchie. I diari sono all’interno. Pagine sciolte, pagine rilegate, alcuni sono battuti a macchina, altri al computer, e poi quaderni, taccuini. Tutti là dentro. Ma non li potrò vedere.

“Quando apriamo i plichi” dice la segretaria, “i diari che ci smuovono ancora gli animi sono quelli scritti a mano. Anche se non sono molto datati. A guardare i rivoli di inchiostro ti immagini la mano che li ha segnati, le nocche, la luce di una lampada che ha illuminato il foglio. Come quello, vede?”

E mi indica, di là dal vetro, una ragazza di spalle. La pagina che si intravede appena è un manoscritto. Lei pare sia una scrittrice in cerca di spunti per un libro, o una sceneggiatura. È il bello di questo posto, pensare che le storie raccontate non restano intrappolate nei contenitori rossi ma prendono il volo, proiettate sulle pareti del museo, raccontate dalla voce fantasmi di gesso, messe in scena su palcoscenici di legno.

Esattamente come ha fatto Mario Perrotta, scrittore e sceneggiatore, che ha dato forma alle voci più interessanti dell’Archivio, prima in un romanzo e poi in teatro, rendendole eterne e nel contempo vive.

“Io mi guardo intorno e vedo stanze e corridoi riempiti da chili e chili di ricordi, raccolti in milioni di pagine, assemblate in migliaia di diari, lettere e memorie, un festival del ricordo insomma, un inno perenne alla memoria. Sono il tentativo tenace di opporre resistenza alla dimenticanza, in una battaglia impari tra poche migliaia di sopravvissuti contro milioni di esistenze di cui non sapremo mai nulla”.

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