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Scrivere senza vertigini, alla giusta distanza delle cose.

di Caterina Corucci

È ormai passato un mese da quando sono capitata quasi per sbaglio a Borgoguerzano77, Camugnano, nell’Appennino tosco emiliano. Fino a quel momento non sapevo niente dei garden sharing, una formula che sta fra il campeggio e il B&B: il proprietario affitta il proprio giardino, orto o parco che sia, dove è possibile piantare una tenda o usufruire di quello che viene messo a disposizione in loco.

A Borgoguerzano77 Massimiliano e Roberto hanno costruito due piccoli alloggi: uno è una vera e propria tenda di legno in stile giapponese dove lo spazio interno è pressappoco quello del materasso, l’altro è leggermente più grande, praticamente una stanza-scatola. In questa porzione di bosco, in condivisione con gli altri ospiti che possono essere al massimo dalle due alle quattro persone, ci sono un bagno compost che garantisce concime per l’orto, le docce e una zona lavatoio, uno spazio living che è una piccola veranda con cuscini e coperte, e piattaforme di legno dove fare yoga o rilassarsi. C’è poi una piccola piscina, quasi una vasca incastonata nel legno e nel verde, una sauna artigianale e un’amaca. A richiesta compare anche la Manu dell’azienda La Spartura, con la cassettina della cena, tutto eticamente sostenibile e assolutamente naturale. Una specie di eden ma non per tutti. Occorre infatti una certa dose di spirito di adattamento, di passione e rispetto per il bosco, occorre amare di essere svegliati nella notte dai versi dei cervi in amore, e bisogna apprezzare la luce che all’alba filtra dal soffitto quasi trasparente.

Quasi dovessi capire meglio, e intimamente attratta dalla situazione, ci sono tornata una seconda volta a distanza di una settimana e da quel giorno sto cercando un pretesto letterario per scriverne sulla rivista. Potrei parlare della Rocchetta Mattei poco distante, citata da Dostoevskij ne I fratelli Karamàzov, o del trekking letterario che ha avuto luogo sulle orme degli scrittori della zona, oppure di Tiziano Terzani e perché no, di Guccini e la sua Pavana.

Ma di fatto mi piacerebbe parlare di una vera e propria letteratura dell’Appennino, come si può parlare di una letteratura ligure o lombarda, o come si sente parlare di letteratura insulare e alpina. Il punto è che faccio fatica a trovare agganci di questo tipo. Non intendo dire che non esistano testi sull’appennino, bensì che non esista un “sentire” dell’Appennino. Non riuscivo a dirmelo compiutamente, finché cercando qua e là sono incappata in un articolo di Matteo Meschiari, saggista, antropologo e scrittore, articolo che mi ha aiutato. Lo cito testualmente:

“Una letteratura appenninica non esiste, e probabilmente non ce n’è mai stato bisogno. Quello che m’interessa, però, è capire perché. Perché questa invenzione mancata di un luogo? Che cosa non va in Appennino? Avevo cominciato a chiedermelo nel 1997 quando, con Francesco Benozzo, abbiamo pubblicato un’antologia di Viaggiatori nell’Appennino modenese tra Ottocento e primo Novecento. La nostra conclusione era giovanile e perentoria: «il paesaggio appenninico non ha fatto nascere un parametro del gusto, un modo peculiare di guardare le cose, uno stile», in primo luogo perché le Alpi hanno esercitato un’influenza abbacinante sulle arti, mentre nel paesaggio appenninico «non c’è grandiosità terribile […] solo delle monotone solitudini […] una terra deserta, desolata, addirittura noiosa che il turista e il grande viaggiatore, dopo le Alpi e in previsione della campagna toscana, senese e romana, non sentono alcun rimorso a ignorare». Poche vedute, insomma, e nessuna visione. Una zona mediana in cui si viaggia per forza e si guarda per caso, un’area transitabile completamente eccentrica, periferica, sottotono. Il figlio di un dio minore, insomma, l’Appennino. Ma perché? Si può dire qualcosa di più preciso su questa massa mancante dell’immaginario?

Il problema della percezione è centrale. L’Appennino non è sublime, non è eclatante, ha un tono discreto, a volte proprio dimesso, è difficile coglierne la specificità, un tratto fisionomico caratterizzante, non esiste un canone pittoresco al quale si accordi, la sua estetica, se c’è, è affidata al ciuffo d’erba, al rovo di more, non alla quercia centenaria. […]  Eppure chi lo conosce, chi lo frequenta, sa intimamente che dietro quel ciuffo d’erba sta pulsando un Altrove. È come una condizione di permanente crepuscolo, di luce scarsa, in cui la lettura delle forme diventa più difficile, mentre una specie di nostalgia, un senso di omissione, striscia come un’ombra dalle cose.”

Ecco che cosa mi ha così colpito ed attratto: in questi luoghi dove lo sguardo è rotto da colline e alberi, dove raggiunta una svolta si scopre che il sentiero prosegue più o meno uguale, viene favorita quella condizione che non è gioia né dolore, né stanchezza né vigore, quella distanza dalle cose che è necessaria per comporre idee, testi, progetti. Ecco perché a Borgoguerzano77 c’è chi viene per scrivere.

Quando si è in mezzo a tempeste o a gioie immense, finché ne siamo immersi, pur percependo il bisogno di mettere qualcosa su carta spesso si desiste, ci siamo troppo dentro; occorre il giusto intervallo per mettere le cose a fuoco. Ma forse basta un luogo senza vertigini, giusto per allontanare lo sguardo, riprendere il fiato e l’equilibrio. Un luogo senza i giganti di roccia o le immensità delle Alpi, lontano da picchi o voragini.

“Sembra insomma di avere a che fare con uno stato della materia che ha il sapore dell’estinzione, e se allora le Alpi sono una grande epica italica, l’Appennino settentrionale rimane una ballata celtica, è la torbiera molle dei racconti.”

Allora alla fine, l’Appennino non è così lontano da un sentimento letterario che vedo incarnarsi perfettamente nei panorami come nelle persone che lo abitano che raccontano di lupi e di tramonti, o negli uccellini che la mattina cantano “sottovoce” perché, come ha detto Massimiliano, qui anche loro sono discreti.

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