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Come gocce d’acqua raggrumate d’improvviso

di Caterina Corucci

Mancano pochi giorni alla fine del mio incarico all’Isola d’Elba, è stato un anno incredibile, ho fatto il pieno di emozioni, ho imparato, ho faticato, ho riso, ho intrecciato rapporti fuori dall’ordinario, ho guidato tanto, sono andata in giro per giorni con il salmastro addosso, ho infilato traghetti come fossero state le mie ciabatte, ho salvato un gatto, un gabbiano e almeno un paio di esseri umani tra cui me stessa. Decido di comprare qualcosa da portarmi a casa come ricordo, come se non bastassero le centinaia di fotografie e un tatuaggio. Qualcosa da guardare, toccare, rivivere, tipo un braccialetto di tormalina nera, quel minerale che si trova come inclusione nei sassi delle Ghiaie di Portoferraio, i sassi che mi sono rotolata fra le mani tutto l’inverno.

L’Elba ha un vero e proprio “cuore di pietra”, nel suo sottosuolo si possono trovare oltre centocinquanta specie diverse di minerali, alcune sono state identificate per la prima volta al mondo sull’isola e ben due ne portano il nome, l’elbaite e l’ilvaite. Sono tantissimi i negozi e botteghe di artigiani che vendono manufatti e gioielli con pietre e minerali anche del posto. Quella vicino all’imbarco ha una vetrina che è una teca incantata. Il proprietario è un ragazzo schivo, ma se ti mostri curiosa ti regala un sacco di sapere. Da lui ho comprato, nei mesi scorsi, alcuni oggetti da regalare agli amici; ogni volta si perde a raccontarmi qualcosa del mondo dei minerali, mi insegna nomi che, siccome non ho memoria, scordo subito e mi mostra colori che non dimentico. E visto che non ho memoria, mi riempie di biglietti e note sulle proprietà benefiche di quarzi, azzurriti e tormaline.

Ora, mentre mette a misura il braccialetto per il mio polso, mi racconta che poche settimane fa è stata scoperta qui, all’isola d’Elba, una nuova specie del gruppo della tormalina. Ce ne sono di tante composizioni e di tante tonalità, dice mentre me ne mostra una azzurra e una rosa quasi rossa, così trasparenti che sembrano fatte d’acqua.

Alzo un sopracciglio, uno solo, lui se ne accorge e aggiunge che ne hanno parlato pochi giorni fa a Elbareport, ma se vado sul sito del MUM, il museo mineralogico e gemmologico Luigi Celleri di S. Piero in Campo, che ha firmato la scoperta, sicuramente troverò informazioni.

Più tardi, arrivo nella mini-casa che ho affittato per il periodo del mio incarico, un bilocale rosa che posso percorrere in tutta la sua lunghezza con dieci passi, immerso in un canneto alla fine di una strada sterrata. Accendo il computer, faccio hot spot con il cellulare perché in mezzo al canneto non c’è wi-fi, e ha inizio il divertimento.

Sulla pagina del MUM trovo il video di Federico Pezzotta, il Direttore Scientifico che, molto orgogliosamente, presenta la sua scoperta, un cristallo di tormalina gialla dalla testa scura, gemmosa, dalla trasparenza violacea-azzurra. Racconta del ritrovamento, delle analisi sul campione, degli indici di rifrazione, della particolare composizione manganese dominante. Ma quello che davvero mi colpisce sono l’entusiasmo di quest’uomo dalle mani grandi e la sua emozione. Racconta di quando si è presentato ad alcuni colleghi ricercatori di Roma e poi alla Commissione Internazionale di Nomenclatura con i campioni in tasca e di come il gruppo di lavoro guidato dal professor Bosi dell’Università La Sapienza di Roma seguì tutte le fasi che hanno portato a riconoscere che sì, si tratta di una specie mai vista prima, e che allora va trovato un nome. E Pezzotta ha presentato la sua proposta: Celleriite, per onorare Luigi Celleri a cui è intitolato il “suo” museo. Celleriite con due “i”, senza far sparire quella del nome all’interno del suffisso. Erano vent’anni, dice, che sperava di scoprire un nuovo minerale all’Elba e di poterlo chiamare così.

Ci sarebbe abbastanza materiale per un articolo, peccato che la rivista Offline sia una rivista letteraria e questo sia un argomento scientifico al cento per cento. A meno che… continuo a scorrere la pagina ufficiale del museo e trovo delle frasi scritte su sfondo turchese.

Mi chiedo chi li abbia scritti, continuo a scorrere la pagina.

Più avanti, la copertina di un libro. “Lo scrigno di elicrisio”, di Arnaldo Prati. Ecco. È l’aggancio che cercavo.

Il giorno dopo parto per il MUM, dalla mia mini-casa rosa a San Piero c’è una mezz’ora di curve e canne di bambù. Adoro percorrere le strade tortuose dell’Elba, stupirmi per cosa trovo dietro ogni tornante, a volte uno scorcio di mare, o un dirupo, o un canneto. Il paese sembra essere scivolato dal Monte Capanne ed essersi fermato su uno sperone di roccia, per i suoi vicoli non c’è nessuno. Non faccio fatica a trovare il museo che è piccolo, prezioso. Mi muovo cauta fra le teche illuminate, gli attrezzi dei cercatori; cerco la Celleriite ma invano, non è ancora esposta.

Federico Pezzotta in questo periodo non è sull’isola, ma ottengo il suo numero di cellulare.

Gli telefono sperando che sia una persona aperta come appare nel video. E lo è, disponibilissimo. Gli spiego il mio interesse per la Celleriite e la necessità di un aggancio che giustifichi un articolo riguardante un minerale su quella che è una rivista letteraria; quindi gli chiedo informazioni sul libro che ho visto fotografato sulla loro pagina e che non riesco a trovare da nessuna parte. Lui si illumina, lo sento dal telefono come fosse davanti a me. E si apre un mondo.

Circa due mesi fa la signora Linda Prati consegnò al MUM “Lo scrigno di elicrisio”, il manoscritto inedito, opera di suo fratello Arnaldo Prati. Lo scrisse dopo essersi imbattuto in un libro di Giovanni D’Achiardi il quale voleva onorare la memoria dell’elbano Luigi Celleri, famoso ricercatore di minerali vissuto dal 1828 al 1900, autodidatta con una capacità di osservazione unica.

Dalle parole di D’Achiardi emersero le figure dei cercatori dell’epoca, degli scienziati, e i luoghi. Storie di ceste colme di magnesite portate da asini accaldati, di geodi e di aria di pini, azzurra e senza polvere. Ma soprattutto emerse quell’uomo appassionato, che riusciva a scovare i filoni con il cuore prima che con gli occhi. Il suo unico strumento di studio una lente di ingrandimento legata a una fettuccia consumata e un libro illustrato di mineralogia che […] era diventato il suo oggetto più caro e le pagine arricciate dicevano quanto spesso egli si fosse soffermato su quei disegni.

Nel 1978 Arnaldo Prati ne fece una storia ma non ebbe il tempo di pubblicarla, che la morte lo raggiunse all’improvviso all’età di cinquant’anni.

Pezzotta mi dice che il manoscritto è davvero interessante e sarebbe bello farlo conoscere al pubblico, infatti l’intenzione è quella di parlare con la sorella del Prati e magari farlo pubblicare. Ma che se intanto ne voglio scrivere io sulla rivista, lui non ha niente in contrario. Meglio, comunque, chiamare prima Linda Prati.

Cerco il contatto su facebook ma non risponde ai messaggi, però scopro che si occupa della biblioteca interculturale di Forlì, quindi la cerco lì. Finalmente riesco ad avere il suo numero telefonico. All’inizio sta sulle sue ma quando realizza che il mio intento è rendere merito al lavoro di suo fratello, si dimostra entusiasta e si offre di mandarmi il manoscritto. E io le chiedo se ho capito bene.

Il manoscritto è qui, tra le mie mani. Solo a provare a descriverlo mi sembra di ridurlo.

Comincia così.

Capitolo 1. – Il Celleri

Un tramonto di settembre, a San Piero i camini fumano azzurro. Con la giacca ripiegata sulla spalla, per addolcire il peso della mazza e della zappa, i cavatori tornano alle loro case: odore di polvere e tabacco al panciotto, scoperto il collo della camicia di lana, deformato il ginocchio dei calzoni.

Qualcuno s’è allungato fino agli orti pensili strappati alle rocce e arriva più tardi con la cipolla e il radicchio nella sporta. Tra i denti la cannuccia densa e lunga fino al fornello di terracotta.

Gli addetti ai cunei hanno fatto giornata aprendo una nuova geode e l’asino, che odora la biada vicina, è già alle prime case con due grosse ceste colme di sassi lucenti; con le labbra affaticate bagna la mano di un operaio che lo guida alla casa di Spirito Pisani.

Sul terrazzo dell’osteria, con panorama a mezzogiorno, al margine del paese, una coppia di stranieri, forse inglesi, sta contemplando i riflessi del tramonto sulla torre di Campo, sulla parete di Segagnana e sul mare del golfo, dove il vapore si riposa a ridosso degli scogli nell’attesa del viaggio di domani, diciotto settembre milleottocentonovantaquattro.

A memoria d’uomo non si ricordava nell’isola un settembre così caldo, tanto che s’erano appena visti selvi e bubbole e i gallastruzzi erano avvizziti con lo scirocco.

Caldo insperato anche per le braccia colorate delle vigne, la cui terra arsa dava fiori solo ai rosolacci.

Alla marina alcune barche, come pellegrini in penitenza, avevano corde e sacchi di juta bagnati intorno al fasciame: in mare sarebbero affogate prima di cicatrizzare lunghe ferite.

Mi rendo conto che sto leggendo una cosa unica. Ci sono delle parti molto tecniche, scientifiche, ma trattate con una lingua quasi poetica e questa commistione mi incanta. Non so se sono più interessata a quello che c’è scritto o al modo in cui è scritto.

Dopo la Grotta, la mulattiera s’inerpicava tra rocce multicolori legate da fettucce bianche di opale latteo e magnesite, non più spesse del palmo di una mano. Dal Roster aveva poi appreso che in quel punto c’erano anche l’opale nero, che in realtà era verde scuro, e quello trasparente, paragonabile a gocce d’acqua raggrumate d’improvviso…

Ci sono descrizioni capaci di evocare immagini così nitide che invece di leggere un testo mi sembra di vedere scene di un film. Come quella del Celleri che si ferma lungo i viottoli a scrutare il granito che affiora sul terreno profumato di elicriso, si china a raccogliere qualche sasso biancastro e avverte uno stupore indefinibile, prolungato, misterioso. Poi riprende il cammino eccitato, sicuro che in quel luogo debba esserci qualcosa. E cos’altro, se non una drusa di tormaline.

Non aveva studiato all’università per diventare l’esperto che era, ma uomini di scienza e professori lo seguivano nelle spedizioni, fidandosi del suo sesto senso e della sua esperienza.

Il professor Giovanni tentava di convincere la comitiva della rarità delle tormaline nere nelle druse del granito di San Piero. […] Luigi conosceva bene il significato della luce riflessa dallo specchio, sapeva bene che non erano le tormaline scure a produrre i bagliori ma i berilli […], più larghi e lunghi e con lucentezza adamantina.

Luigi Celleri aveva un sorriso bonario e occhi vivaci, il naso grosso e la barba lunga e ispida. Portava campanelline d’oro appese alle orecchie e toppe disuguali ai pantaloni. Mani rozze dalle falangi forti e sensibili.

La foto che fa da copertina al manoscritto, scattata dal D’Achiardi nel 1899 è di una bellezza struggente. Morì il 21 luglio un anno dopo quello scatto, all’età di settantadue anni, due giorni dopo che un malore lo colse durante una spedizione a Grotta d’Oggi. Era nel bel mezzo di una scoperta, gli mancò il fiato ma lì per lì si riprese. Poi l’oblio.

Per la prima volta indefiniti gli apparvero i contorni delle cose e delle persone. La parete profanata era lì di fronte, coi filoni bianchi come bende candide sulla fronte di un gigante. L’occhio velato saliva e scendeva su quel granito, mentre i cristalli di trent’anni brillavano al sole, danzavano al vento.

Pochi istanti prima di morire, la sera, riconobbe la cugina, le fece cenno con gli occhi poi, con un filo di voce, le raccomandò di avvisare quelli dell’Università di Pisa che a Grotta d’Oggi s’era scoperto un nuovo filone.

In ultima pagina una piccola biografia dell’autore, scritta dalla sorella. Arnaldo Prati era un medico veterinario con la passione per i minerali, dei quali era un ricercatore e collezionista. Dedicò gran parte delle sue ricerche proprio all’isola d’Elba e pubblicò nel 1976, insieme ad altri due amici collezionisti, un libro sui minerali delle miniere dell’Elba.

Arnaldo Prati durante una pausa dal lavoro di scavo, 1974

Vorrei che questo testo, arrivato a me grazie a un braccialetto di tormalina nera che mi sono regalata, non restasse sconosciuto. Prati che scrive di Celleri dopo aver trovato un testo di D’Achiardi, io che scrivo di Prati dopo aver letto il suo libro su Celleri.

Più che ci penso sembra una catena, anzi, un filone.

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