Press "Enter" to skip to content

#3

di Ivan Nannini

O cuore, fa’ conto di avere tutte le cose del mondo,
Fa’ conto che tutto ti sia giardino delizioso di verde,
E tu su quell’erba verde fa’ conto d’esser rugiada
Gocciolata colà nella notte, e al sorger dell’alba svanita.

Quattro righe, impresse sulla copertina del minuscolo libricino che ho estratto delicatamente dall’involucro di cartone, lasciato sul pianerottolo da un corriere frettoloso. Niente a che vedere, per peso e consistenza, con il libro stupendo apparsomi in sogno l’altra notte. Un grande volume d’oro, con tre pavoni impressi sulla copertina, puntellato di diamanti.

Un sogno molto articolato di cui ricordo solo pochi tratti: il libro, l’uomo che me lo porgeva, e un grande ambiente, forse una libreria o un museo dal soffitto incredibilmente alto e decorato. Nessuna traccia di Kiron nel sogno, sempre che non fosse lui a vestire i panni del tizio, o a dirigere quella strana trama onirica. Comunque sia, da quella notte le immagini, l’ambiente, e in particolare la copertina del libro non mi hanno dato tregua, tormentando continuamente i miei pensieri e spingendomi a cercare un qualche possibile riscontro nel mondo reale.

E così finalmente, durante la mia ricerca sul web, l’immagine nitida di quel volume balza fuori dallo schermo del pc, come fosse stata lì ad aspettare, nascosta da un velo invisibile, in attesa di un soffio leggero per mostrarsi in tutta la sua bellezza.

La osservo a fondo, ingrandendo e spostando l’immagine per raccogliere più particolari possibili. È esistito davvero, sta lì, e secondo la descrizione a lato dell’immagine, quel libro fu rilegato agli inizi del novecento dalla Sangorski & Sutcliffe di Londra, fondata nel 1901 e considerata una delle più importanti compagnie di rilegatura del XX secolo.

Si tratta del The Great Omar, un libro di poesie nella forma di quartine, (dal persiano Robâ’iyyât), scritte più di mille anni fa da Omar Khayyâm.

Sui motivi per cui la Sangorski & Sutcliffe realizzò un così sontuoso lavoro non ci sono dati certi. Pare che sia stato commissionato dalla Sotherans Bookshop, ma c’è anche chi afferma che fu la stessa Sangorski & Sutcliffe a realizzarlo senza committenti per creare qualcosa di unico da lanciare sul mercato. Al suo interno, una raccolta di quartine tratte dal Robâ’iyyât nella traduzione di Edward FitzGerald in lingua inglese; o forse dovremmo dire: nella sua reinterpretazione, dato che il piccolo volumetto che il FitzGerald pubblicò nel 1859 non può essere considerato una traduzione fedele dall’originale, bensì una vera e propria reinterpretazione adatta ai lettori occidentali.

Una delle cose certe è che il libro fu completato nel 1911 dopo due anni e mezzo di duro lavoro e grande passione, e che fu spedito in America per essere visionato.

È proprio qui che inizia l’incredibile avventura del volume. Poiché il pesante dazio per la spedizione richiesto alla dogana non fu saldato, Il libro venne rimandato a Londra e successivamente fu messo in vendita all’asta di Sotheby’s, dove un cittadino americano di nome Gabriel Wells lo acquistò sottocosto. Dunque il libro sarebbe dovuto tornare di nuovo in America, ma qualcosa purtroppo andò storto. Fu scelta per il trasporto la nave che a quel tempo (1912) era vista come la più innovativa e sicura mai realizzata: il Titanic. Fu così che il Great Omar colò a picco, insieme a tutto il resto, nelle nere profondità marine.

È incredibile, almeno per me che mi ritrovo a fissare lo schermo con lo sguardo corrucciato, masticando manciate di arachidi, scoprire che Francis Sangorski, uno dei due soci della Sangorski & Sutcliffe, annegò poche settimane dopo tale evento in un lago, cercando di salvare una donna in difficoltà. E ancor più che una seconda riproduzione del The Great Omar, creata molti anni dopo da Sutcliffe, venne distrutta durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale nonostante fosse stata messa al sicuro in un caveau della banca di Londra. Successivamente fu Stanley Bray, il nipote di George Sutcliffe, ormai a capo dell’azienda, a spezzare la maledizione realizzando il terzo The Great Omar secondo le specifiche dello zio, e donandolo alla British Library di Londra dove ancora oggi è custodito.

Ma si trattò davvero di una maledizione? Oppure è il valore materiale che sta un po’ stretto alla poesia, in quanto è lei stessa patrimonio dell’umanità? Un qualcosa che viaggia su binari propri non seguendo regole di promozione e di profitto? Tante domande. Ed io mi ritrovo a seguire una linea invisibile cercando di collegare i puntini di questo lungo viaggio.

Amici! Quando insieme vi riunirete ancora,
E ciascuno lieto rimirerà la bellezza dell’altro,
Quando porgerà di sua mano il Coppiere il vino rosato dei Magi,
Volgete un ricordo pregante a me, infelice.

Torniamo indietro di un migliaio di anni, verso la genesi di quelle famose quartine. Eccolo lì Omar, con lo sguardo perso sul foglio cercando l’ispirazione.

La poesia nella forma delle quartine ha regole strette. Non deve essere affatto semplice incastrare le parole, i concetti, i pensieri. Ma in definitiva non è altro che un pensiero puro.

Omar non fu un poeta di professione, lui per il mondo del suo tempo fu un uomo di scienza, un astronomo, un matematico. Ma sapeva bene che tutta quella scienza, tutti i suoi studi matematici, tutta quella conoscenza del cosmo e del suo meccanismo perfetto, non potevano e non avrebbero mai potuto dare risposta alle domande essenziali: quelle sulla vita, sulla morte, e sul senso di tutto questo.

Scrisse probabilmente i suoi versi nei ritagli di tempo e, molti di essi, li dedicò al tema del “vino” e all’esaltazione del “vizio” bacchico.

Altri invece contengono temi assai più profondi, come ad esempio: una meditazione originale sulla morte e sui limiti della ragione umana “impotente” di fronte al mistero dell’esistenza; un rimprovero, spesso rancoroso, a Dio, il cui progetto creativo è accusato di irrazionalità e incoerenza; un feroce attacco al bigottismo e all’ipocrisia dei religiosi e al Corano.

In verità c’è chi sostiene che anche le quartine “bacchiche” contengano un significato profondo, dove il vino è un elemento sacro.

Io personalmente credo, ma è solo una mia opinione, che il “vino”, fosse per lui una valvola di sfogo, un’evasione dalla cruda e razionale realtà. Un modo per allontanarsi dal peso della vita.

Lévati, o Bella, dal sonno, la gola bagniamo di vino
Pria che alla gola ci afferri il cappio del Fato,
Ché questo cielo crudele ci negherà, presto, il tempo,
Il tempo di fiorir nuovi al tocco dell’acqua.

Ma la sua poesia come ha cavalcato lo spazio e il tempo fino ad arrivare ai giorni nostri?

Sembrerà strano alle nuove generazioni che anche senza il web, la promozione commerciale e la spinta editoriale, la poesia come il pensiero si propaghi diffondendosi come una sorta di virus invadendo tutto il globo. Ma è proprio così. Le famose quartine uscirono allo scoperto grazie a svariati ritrovamenti, anche se la paternità di tali versi fu messa in discussione più volte nel corso dei secoli e ancora adesso solo una parte può essere attribuita a Omar Khayyâm.

Ma questo è un problema tutto occidentale. Me ne rendo conto leggendo l’introduzione di Alessandro Bausani, il curatore e traduttore del piccolo volumetto che ho acquistato. Non è l’unica traduzione che troviamo in lingua italiana, ma sicuramente la più fedele all’originale dato che Bausani è stato uno dei massimi studiosi dell’Islam, nonché traduttore e commentatore di una delle più importanti versioni in lingua italiana del Corano. Come appunto dicevo, nella sua introduzione ci racconta che nella concezione orientale la proprietà letteraria e l’interesse storico di conoscere chi, e quando, abbia scritto un bel verso non furono, né lo sono ancora almeno in parte, questioni sentite come molto importanti. Leggo in proposito un passo: “Mi è capitato personalmente di sentir attribuire a se stesso, da qualche persiano, dei versi anche relativamente famosi di altri poeti, e, ancora, dopo la recitazione di un bel verso notai un certo senso di delusione e quasi di irritazione nell’interlocutore quando, nella mia avidità di sapere di tipo occidentale, chiedevo chi lo avesse scritto e quando”.

Nella concezione orientale la poesia è patrimonio di tutti, ma in fin dei conti anche il Croce, qui da noi, asseriva che chi sente profondamente un’opera d’arte, viene a trovarsi più o meno nella stessa posizione di chi l’ha creata.

Per quanto riguarda la divulgazione di tali versi in occidente non posso non parlare di Edward FitzGerald che nel 1859 pubblicò il suo piccolo volumetto contenente un centinaio di quartine di Omar Khayyâm, tradotte e “reinventate” in lingua inglese. Il suo lavoro contribuì notevolmente alla diffusione del Robâ’iyyât nei paesi anglofoni e successivamente nel resto del mondo, nonostante il fallimento della prima edizione che restò praticamente sconosciuta.

Le poche copie restarono a lungo a prender polvere in qualche piccola libreria se non addirittura su qualche bancarella a prezzi stracciati. Solo dal 1861 si diffuse lentamente nei circoli letterari, grazie a intellettuali come Dante Gabriel Rossetti e Algeron Charles Swinburne.

Immagino tali intellettuali intenti a prelevare alcuni di quei volumetti nascosti da cianfrusaglie varie, soffiare via la polvere, leggerli nella penombra delle proprie abitazioni e diffondere il verbo negli anni a seguire.

Non so se andò precisamente così la cosa, ma è un dato di fatto che negli anni ne furono stampate altre tre edizioni e, prima a Londra, poi in tutto il mondo anglofono, il Robâ’iyyât del FitzGerald divenne un vero e proprio oggetto di culto con tanto di seguaci e circoli specifici, ispirando e spingendo probabilmente anche la Sangorski & Sutcliffe a creare il The Great Omar.

Un lungo viaggio quindi, che ho sintetizzato in poche righe, fatto di scoperte, incidenti, casualità. Oppure il tutto non è altro che il gioco del destino, di una goccia d’acqua caduta dal cielo, che con l’aiuto del vento, dei fiumi e della sua stessa natura si ritrova proprio lì dove doveva andare: in mezzo al mare.

Sorge ogni tanto qualcuno, che dice: «Eccomi, son Io!»
Pien di fortuna si leva, e d’oro e d’argento.
E quando tutte bene ordinate ha ormai le sue cose
«Eccomi, son Io» sussurra da segreto agguato la Morte.

Ed è con questa nuova consapevolezza che mi appresto a leggere le quartine sul mio libricino. Le leggo una ad una, senza pausa, contravvenendo al consiglio dello stesso Bausani di assorbirle una alla volta, una ogni tanto. Ma io voglio fare il pieno di poesia in questa sera piovigginosa. Le mie pupille seguono veloci il tratto, e nel mio cuore si aprono scrigni pieni d’emozione. Bevendo vino, mi intristisco, ho un tremito, sorrido.

More from La porta sullo spazio invisibileMore posts in La porta sullo spazio invisibile »

Be First to Comment

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *