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Quella notte di un anno senza estate, sognando Frank the Stone

di Caterina Corucci

Tutto cominciò un paio di mesi fa, quando il professore di italiano di mia figlia assegnò alla classe la lettura del Frankenstein di Mary Shelley e per invogliarla le raccontai la genesi del romanzo, che è di per sé una storia affascinante. Nel 1816 alcuni personaggi illustri provenienti dall’Inghilterra si ritrovarono nella Villa Belle Rive sul lago Lemano, in Svizzera. Erano lo scrittore Lord Byron, il suo medico e segretario personale John Polidori, il poeta Percy Bysshe Shelley, la sua amante Mary che prima di diventare la signora Shelley faceva Wollstonecraft Godwin e Claire Clairmont, la sorellastra di lei.

Quell’anno fu ricordato come “l’anno senza estate”. Le ceneri dell’eruzione del vulcano Tambora in Indonesia arrivarono fino all’Europa, ne oscurarono il cielo causando violenti piogge, inondazioni e tempeste di neve rossa e il gruppo si vide costretto a passare molte ore all’interno della villa.

La pioggia incessante ci confinava in casa. Alcuni volumi di storie di fantasmi capitarono fra le nostre mani, ricorderà Mary.

Oltre all’amicizia, li accomunava la passione per i romanzi gotici, al punto che una sera Lord Byron lanciò una proposta: ogni membro del gruppo avrebbe dovuto scrivere una storia dell’orrore. Fu da quella sorta di sfida che uscirono due capolavori della letteratura fantastica: Il vampiro, di John Polidori, che in seguito ispirò il Dracula di Bram Stoker e Frankenstein, di Mary Shelley.

Oltre che per il gotico il gruppo nutriva interesse per la scienza, che in quel tempo aveva aspetti ai limiti del sovrannaturale. Allora si parlava molto degli esperimenti scientifici legati all’elettricità, argomento familiare nei circoli frequentati dalla giovane Mary Wollstonecraft Shelley. Il poeta inglese e amico di famiglia Samuel Taylor Coleridge ne discuteva con il chimico Humphry Davy e lo stesso Percy B. Shelley era appassionato di sperimentazione galvanica, quella che il fisico, fisiologo e anatomista Luigi Galvani conduceva sulle rane. Osservando il rapporto fra movimenti dei muscoli e carica elettrostatica lo scienziato arrivò a ipotizzare una relazione fra elettricità e vita.

Il nipote di Galvani, Giovanni Aldini, si concentrò sulle applicazioni dell’elettricità in campo medico. Nel 1803 un condannato a morte, George Forster, fu impiccato per omicidio nella prigione di Newgate a Londra; dopo l’esecuzione il corpo fu trasferito nel Collegio Reale di Chirurgia per essere dissezionato e studiato a beneficio della medicina. Al tavolo operatorio c’era Aldini, che fece ben di più: elettrizzò il cadavere secondo gli esperimenti sull’elettricità animale dello zio.

Il giornale The Times riportò che “alla prima applicazione del processo sul volto, la mandibola del criminale deceduto cominciò a tremare, i muscoli attigui erano orribilmente contorti e un occhio si aprì davvero. Nella parte successiva del processo, la mano destra si alzò e si contrasse, e le gambe e le cosce si misero in movimento”. Ad alcuni spettatori sembrò “come se il miserabile fosse stato sul punto di essere riportato in vita”.

La questione se l’elettricità potesse essere considerata o no una forza vitale accese violenti dibattiti che andarono avanti per molti anni: nel 1814 il chirurgo Abernethy si scontrò sull’argomento con un collega, Lawrence. Mary e Percy erano sicuramente al corrente dei dibattiti, Lawrence era il loro dottore.

Ricercando nomi e luoghi, saltando da un sito all’altro, trovai una cosa interessante: il legame di Frankenstein con la Toscana. Il fratello di latte di Mary, Henry Revely studiava architettura a Pisa e qui frequentava il collegio medico di cui faceva parte Francesco Vaccà Berlinghieri. Il chirurgo, soprannominato Frank the Stone per le sue ricerche sui calcoli renali (stone, cioè pietra),  relazionava gli esperimenti di galvanismo che conduceva insieme a Eusebio Valli, finalizzati alla scoperta di un congegno che restituisse la vita ai morti. Mary aveva sei anni, ma le lettere di suo fratello e il dibattito intorno a tali questioni non dovettero lasciarla indifferente se anni dopo, in una di quelle notti Svizzere, ebbe un incubo: “Vidi il pallido studioso di una scienza proibita, inginocchiato accanto alla cosa che aveva messo insieme. Vedevo l’orribile forma di un uomo disteso e poi, grazie all’opera di una macchina potente, il cadavere mostrava segni di vita e si sollevava con movimento difficoltoso, solo parzialmente vitale”. Il giorno dopo iniziò a scrivere le prime pagine della sua opera. E forse non è una coincidenza se chiamò il suo mostro Franken-stein, come il soprannome, in tedesco, del medico pisano.

A questo punto mia figlia ritenne soddisfatta la sua curiosità, mentre la mia voglia di saperne di più si era appena messa in moto.

Da Google seppi che City Grand Tour organizza a Pisa tour letterari; cercai il contatto e mi rispose Chiara. Dissi che ero interessata a Mary Shelley e fui contenta di saperla, come dire, specializzata sull’argomento.

Qualche giorno dopo, una mattina di dicembre, ci vedemmo sul Lungarno G. Galieli.

Chiara era esattamente come mi avevano promesso la sua voce e i pochi messaggi che ci eravamo scambiate: giovane, competente, alla mano e con un bagliore negli occhi. Qualche minuto di convenevoli appoggiate alla spalletta del fiume, cercando invano tepore in uno spicchio di sole metallico, poi ci voltammo. Eravamo davanti a Palazzo Chiesa, dove Mary e Percy Shelley vissero nel 1821. Quando i due arrivarono a Pisa per la prima volta, nel 1818, la scrittrice non ne ebbe una prima bella impressione; si ricredette più avanti, anche grazie allo sguardo di suo marito.

Fermati sul ponte di marmo, posa lo sguardo – se non sei abbagliato – sul fiume che risplende quasi fosse infuocato, segui poi la curva aggraziata dei palazzi sul Lungarno, e dimmi se c’è niente che possa superare un tramonto di Pisa.

Mary e suo marito, invitati nella città da Mrs Mason, scrittrice angloirlandese ex allieva di mamma Wollstoncraft, vissero tra Pisa e Bagni di Pisa dal gennaio del 1820 fino alla fine dell’estate del 1822, quando si trasferirono a Lerici.

Fu la Mason a presentare alla coppia il dottor Andrea Vaccà Berlinghieri, figlio di Frank the Stone, perché si occupasse della salute di Percy. Chiara mi mostrò la casa del medico, e camminando lungo il fiume senza fretta mi raccontò delle Accademie e del fermento culturale che si respirava in quegli anni nella città.

Arrivammo così fino al Royal Victoria Hotel, il soggiorno preferito a Pisa dagli inglesi, a quel tempo, proverbiali viaggiatori.

La mia gentilissima guida mi raccontò di tutto e di più e avrebbe voluto accompagnarmi anche in un altro luogo che fu caro a Mary e Percy: San Giuliano Terme, dove su consiglio di Andrea Vaccà Berlinghieri trascorsero le estati del 1820 e del ’21 per fare cure termali.

Ma ormai si era fatto tardi, saremmo andate un’altra volta.

Finalmente riusciamo ad organizzarci. Chiara mi dà appuntamento e ci vediamo ai Bagni di Pisa che sono a San Giuliano, Largo Shelley numero 18. La struttura è antica ed elegante, quasi incastonata nel Monte Pisano. Qui, City Grand Tour mette in scena un itinerario teatralizzato in cui Chiara interpreta Mary Shelley e, in prima persona, racconta la storia della scrittrice. Passeggiando all’esterno mi mostra la fontana, il gazebo, le colline che fecero innamorare la coppia di scrittori inglesi. All’interno, le acque benefiche, gli affreschi, tutto è in stile e mi sembra di fare un salto all’indietro nel tempo.

C’è anche un altro posto dove mi vorrebbe portare. Si tratta di Villa Corliano, ed è a dieci minuti di macchina. Non è ancora tardi e decidiamo di andare. Seguo l’auto di Chiara, lei il posto lo conosce bene: “Fantasmi in Villa” è uno degli itinerari di City Grand Tour.

La costruzione si staglia in cima al poggio, impressionante. Sembra un quadro un po’ sinistro, con quell’alone di elegante decadenza che la incornicia. Il cancello è aperto ed entriamo ma subito dopo mi fermo, devo assolutamente scendere per apprezzare la scena. Chiara si è accorta che son rimasta indietro ma prosegue e mi fa cenno di raggiungerla più avanti. Resto un po’ lì, imbambolata; scatto due foto, poi risalgo in auto e procedo senza staccare gli occhi dall’edificio finché gli arrivo sotto. Chiara mi sta aspettando. Villa Corliano è di proprietà della famiglia Agostini Venerosi della Seta da generazioni, ma oggi Agostino Agostini non è in zona. Facciamo un giro intorno alla casa, la vecchia stalla, il platano secolare, il bosco.

Ultimamente, mi dice Chiara, lei fa la guida al gruppo dentro alla villa e intorno al parco, dalla chiesa al “bosco delle fate”. L’intervento teatralizzato nel bosco, di notte, lo lascia fare al collega Alessandro perché le presenze occulte che abitano la proprietà non sono poi così occulte e anche se gli specialisti assicurano che si tratta di entità protettrici, sai com’è…

Riusciamo anche ad entrare all’interno grazie a un operaio che sta facendo dei lavori. Il salone è chiuso ma ci fa scendere al piano di sotto, da lì si arriva ai sotterranei dove è stato girato il reality TV di Ghost Hunters e dove i ghostbusters hanno fatto i loro rilievi. Chiara si tiene un po’ indietro, allora anche io. E torniamo al piano di sopra.

Al telefono Agostini ci dice che gli dispiace non averci incontrato, ci avrebbe condotte nell’antica Coffee House, quella costruzione sul retro dove ai tempi in cui gli Shelley erano in zona, venivano condotti esperimenti di galvanismo per intrattenimento e curiosità degli ospiti, utilizzando un acchiappa fulmini. Però ci consiglia di arrivare fino a Orzignano, alla villa che Andrea Vaccà Berlinghieri aveva, fuori città. È lì che il ricchissimo chirurgo, illuminista, anticlericale e massone, ossessionato dalla vita e dalla morte, effettuava gli esperimenti clandestini sui cadaveri, c’è anche una lapide che lo ricorda. E perché no, qui Mary potrebbe aver visto all’opera l’amico, medico visionario. Nella casa sono custoditi gli strumenti utilizzati per sezionare i corpi e “lavorarci”, i libri, gli appunti. Adesso ci abita una pro-pro-nipote, Sofia Donalisio e la casa si può visitare su appuntamento. Ma ora è davvero tardi, andiamo.

Mi rimetto sulla strada di casa con la testa piena di immagini, di suggestioni. La radio è come un disturbo e la spengo, niente di quello che viene trasmesso si addice al mio stato d’animo. Non vedo l’ora di raccontare tutto a mia figlia, farle vedere le foto. Chiederle se ha voglia di venire con me a Orzignano, appena possibile, a fare un giro.

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