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Gatta morta o femme fatale? Donne noir fra crimine e letteratura

di Caterina Corucci

Quel tardo pomeriggio del 21 giugno faceva caldo ma non troppo. Tutto era pronto nella bella Torre medievale di San Vincenzo per accogliere il Marea Noir Festival organizzato dell’Associazione Donne Difettose: una tre-giorni alla scoperta del mondo noir e delle donne criminali che lo popolano. Beatrice Galluzzi, Elena Ciurli e Alice Scuderi, perfette padrone di casa, insieme alla madrina del festival Veronica Galletta, hanno presentato la scrittrice Emanuela Cocco, di nero vestita, per il primo step: il laboratorio sulle Donne criminali, ovvero quando nel noir la letteratura è a servizio del cinema, e viceversa, spaziando da un territorio all’altro come se non ci fosse un confine. Attraverso l’analisi di celebri sequenze cinematografiche e brevi letture di romanzi, è stata sviscerata la filosofia noir con i suoi personaggi femminili: “donne criminali, assassine spietate, amanti appassionate, crudeli manipolatrici, seduttrici eppure donne fragili e tormentate“. 

Una Cocco preparatissima ha introdotto innanzitutto al noir come genere, quello che sta a metà fra il giallo e il thriller: c’è il crimine ma non la costruzione deduttiva del primo, né la suspence del secondo, perché il delitto è dichiarato fin da subito, e noi non possiamo far altro che assistere alla rovina del protagonista, che nel corso della storia perde la propria innocenza in un intrigo torbido di sesso, potere e morte. Si trattiene il fiato, non per scoprire il colpevole, ma per capire se il protagonista riuscirà a cavarsela, e spesso ci troviamo a sperare che accada, anche quando abbiamo davanti una figura negativa; ci identifichiamo con i cattivi, trascurando per un attimo che nella filosofia del noir, chi sbaglia, alla fine deve pagare. E chi porta il protagonista alla distruzione è proprio la donna: lo manipola per ottenere il suo scopo, e con il viso in ombra e la sigaretta accesa, ci appare pericolosa fin da subito.

Emanuela Cocco

Tra proiezioni di film e letture, Cocco ha guidato il pubblico nell’individuazione di quelle che sembrano sfumature ma in realtà sono elementi determinanti per il genere, e che spesso sfuggono ad un approccio inconsapevole o disattento.

Partono le immagini in bianco e nero de La fiamma del peccato (1944) (Double Indemnity): una superba Barbara Stanwick seduce il protagonista perché la aiuti a uccidere il  marito e riscuotere il premio assicurativo. È lei, il primo tipo di donna noir che andiamo ad analizzare: la “femme fatale”, nella trasposizione cinematografica del romanzo di James M. Cain. Il regista Billy Wilder ebbe bisogno dell’aiuto di Raymond Chandler, autore e sceneggiatore di narrativa hard boiled, affinché il film diventasse accettabile per il pubblico americano di quel tempo, a causa del sapore pulp del soggetto che minava la morale per il basso tono generale e la scabrosità dei contenuti.

Nelle sequenze proiettate la Stanwick appare discinta, ha una cavigliera; tutto è sordido. Le ambientazioni sono cupe e polverose, e la luce che filtra dalle veneziane seziona il personaggio con un gioco di ombre che rimanda alle sbarre di una prigione. 

Barbara Stanwick, La fiamma del peccato (Double Indemnity)

Altre immagini, altro film, altra categoria di femmina seduttiva e mortale: è la ragazzina dal volto pulito, la falsa salvatrice, in una situazione dove l’uomo sa di andare incontro a un destino perverso, c’è sadismo, c’è masochismo. Qui la donna diventa archetipo: il personaggio di Lulu, interpretato da Louise Brooks, nato come dramma nel 1929 dalla penna di Frank Wedekind, diventò un film muto, Il vaso di Pandora, ispirando poi la Valentina di Crepax e il suo caschetto nero. Qui, mancando i dialoghi, la simbologia diventa fondamentale con l’uso degli specchi, che dalla strega di Biancaneve a Dorian Gray tanto aiutano a darci quel senso di ambivalenza e di falsità, e i primi piani sui piedi: la telecamera li riprende spesso mentre discendono le scale, come segno di degrado morale. Si sente forte l’influenza dell’espressionismo tedesco, e la sofferenza degli autori tedeschi rifugiati in America.

Louise Brooks, Il vaso di Pandora

Terza donna noir, “la gatta morta”, quella calcolatrice e manipolatrice travestita da ragazza per bene. Terzo film analizzato: Eva contro Eva (1950), tratto dal racconto di Mary Orr The Wisdom of Eve e diretto dal maestro Joseph L. Manrkiewicz, dove una fragile e adorante Eva (Bette Davis) si presenta a Margot, affermata attrice di teatro interpretata da Anne Baxter, come sua grande fan, riuscendo a conquistare la fiducia sua e di chi le sta intorno, fino a diventarne segretaria e ossessione. Tutto nell’intento di rubarle dapprima gli sguardi del pubblico, poi il successo, poi l’uomo. Protagonismo e arrivismo in primo piano, che vengono raccontati usando ancora una volta strumenti simbolici come gli specchi e le scale; e ancora una volta la protagonista perderà la battaglia e gli affetti.

Bette Davis e Anne Baxter in Eva contro Eva

Sarà per Betty Davis e i suoi occhi, sarà che nel film precedente interpretava il personaggio buono mentre qui spiazza per la sua crudeltà, ma io mi sono innamorata della quarta femmina noir: “la statua”, spietata e crudele, che da statua si comporta. Cocco aziona il fermo immagine sulle mani bloccate ad artiglio, sullo sguardo fisso, sul corpo rigido. Il film analizzato è Ombre Malesi, dove una Bette Davis cattivissima uccide, e poi corrompe per farla franca. Ci troviamo a vivere con lei il tormento per l’essere scagionata dal tribunale della società ma non da quello interiore; torna la filosofia del fallimento, dell’infelicità anche quando si sfugge alla prigione. Di nuovo, simboli: un lavoro a uncinetto che la donna non riesce a portare avanti, un manica scucita che andrebbe rattoppata: non sono altro che gli affetti familiari in disgregazione. E ancora, luci e ombre ingabbiano il personaggio. 

Bette Davis in Ombre malesi

Ultima donna criminale, ultimo film: la Femmina folle (1945), ispirato al romanzo omonimo scritto da Ben Ames Williams. Qui c’è una donna gelosissima e ossessiva (Gene Tierney) che ci ricorda tanto la Misery di Stephen King; il contesto è sereno, aria buona, luce, natura. Il sogno americano di normalità viene infranto dall’anormalità di una mente così follemente devota da riuscire a commettere cose orrende, da uccidere chiunque possa toglierle l’esclusiva sull’uomo amato. Anche qui la donna noir perde: in questo caso, la vita. Si suiciderà cercando di far ricadere la responsabilità sulla sua rivale.

Gene Tierney in Femmina folle

Finisce così il primo giorno del festival. Tornando a casa penso che mi ci vorrebbe una Cocco per ogni film che vedo; sono tante le cose che sfuggono, che a non saperle è peccato, rischi di perderti il meglio. Viceversa, a saperle arricchiscono quello zaino di cose succose che ci portiamo dietro, rendendolo più pieno ma più leggero.

Un’altra donna criminale, del tipo sicario, è quella descritta da Diego Di Dio nel suo Fore Morra, che è stato presentato da Veronica Galletta in chiusura del festival; ma prima di lui La Torre di San Vincenzo ha accolto Barbara Petronio, sceneggiatrice di Romanzo Criminale e di Suburra, che ha svelato tutti i retroscena di una serie dal carattere forte, direi “maschile” (debitamente virgolettato). A seguire Emanuela Cocco ha presentato il film Indivisibili, per il quale la Petronio ha vinto il David di Donatello.

E a questo punto dovremo forse portare a sei i tipi di donne noir, dove il sesto tipo è proprio quella che ti fa dire: ma davvero l’ha scritto una donna? O per dirla con le parole delle Donne Difettose:  “Perché una donna dovrebbe scrivere una cosa del genere?”.

(23 luglio 2019)

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