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ep.10 I figli delle rane

Buona lettura con il decimo episodio della serie, rappresentato in copertina da un disegno di Elena Liverani.

EPISODIO DIECI: I FIGLI DELLE RANE

di Ivan Nannini

(Juri)

“Barba o capelli?”

“Solo barba.”

Mi sono svegliato di buon’ora stamattina, non capita spesso. Il temporale di stanotte con i suoi tuoni e lampi non mi ha fatto dormire granché. Sono riuscito a prepararmi una buona colazione, avevo delle uova in frigo e della pancetta, delle arance per fare una spremuta e del caffè. Ho dato una bella pulita al mio appartamento e gettato un bel po’ di immondizia.

“É strano per un ragazzo della sua età venire da me per farsi la barba.”

“Non sono così giovane come pensa e poi le mie lamette sono consumate e non ho voglia di farmi una decina di chilometri per raggiungere il magazzino di spaccio.”

Ha smesso di piovere ma il cielo resta scuro, fuori si vedono ondeggiare dei cipressi e sulla strada dei fogli di giornale danzano sbattuti da raffiche di vento. Mi sento al sicuro. Alvaro, un uomo in carne e basso di statura con pochi capelli solo ai lati della testa, è il proprietario e unico inserviente di questa attività. Indossa ogni giorno la sua spolverina bianca che sembra uscita da un film d’epoca, a tratti si cimenta in esuberanti esibizioni di canto lirico destreggiandosi con pennello e rasoio. É il barbiere dell’immaginario collettivo e il suo locale è un vecchio scantinato situato poco fuori dal paese in mezzo ad un gruppetto di tre o quatto case. Credo che Alvaro lo abbia ereditato dal padre se non dal nonno. L’arredamento è rimasto intatto negli anni.  Le pareti sono coperte per tre quarti da listelli in plastica beige, il pavimento una stesura di mattonelle in graniglia scheggiate e rovinate dal tempo, gli specchi ossidati ai bordi e le sedie ricordano poltrone chirurgiche vintage se non strumenti di sevizie e torture. Sulla parete alle mie spalle ci sono pure delle seggiole in formica e metallo per gli ospiti: perchè di questo si tratta, vecchietti che trascorrono le giornate seduti a chiacchierare con Alvaro e i pochi clienti, leggendo un giornale qualsiasi e commentando varie notizie. La luce al neon rende i volti grigi e opachi, anche il mio appare così sullo specchio mentre Alvaro mi spalma una mistura da lui preparata in precedenza sul mento e sulle guance con il pennello.

“Cazzo che occhiaie che mi ritrovo…” Dico al mio opposto sullo specchio.

“É la luce.” Dice l’ometto dietro di me. Deve essere entrato mentre ero già seduto, non lo vedo bene ma sono sicuro che è piccolo e magro, la voce stridula lo conferma e ne rimarrei deluso se così non fosse.

“Cos’è questa cosa che mi mette in faccia?” dico.

“La preparo io.” Risponde Alvaro. “Non si trova più una crema da barba decente allo spaccio distrettuale.”

Detto questo si perde in una oscena ma deliziosa performance di canto, Il pennello vola con maestria tra la mia faccia e il piattino che ha in mano in un movimento rapido e teatrale. Un attimo dopo tiene in pugno il suo rasoio, lo ha tolto con cura dalla sua custodia in legno. La sua lama è fredda e i movimenti forti e decisi. Si sente sulla pelle l’esperienza di Alvaro, anni e anni di mestiere, e forse anche l’esperienza dei suoi avi impressa nei suoi geni la fanno scorrere come in automatico. La sua testa è libera di pensare e la sua bocca di parlare e di cantare se necessario. Mi chiede della mia famiglia di origine, di mia figlia, della mia attuale compagna e della mia ex, di cosa faccio la sera, di come mi trovo con i miei vicini e tanto altro. Io rispondo a monosillabe: tutto bene. Mia figlia sta bene, la famiglia lo stesso, pure la mia compagna.  In verità mio padre e mia madre non li sento da un bel po’, mia figlia la vedo di rado e la mia compagna è fuori per lavoro. Sono spesso solo e non trovo sempre la forza per accettarlo. Ma questo logicamente non lo dico. Mi chiedo come possa sapere tutte queste cose, ci vediamo di rado, ma in un paese così piccolo tutti sanno tutto di tutti a quanto pare.

“Non dovevi curare il giardino di Renata stamani? Non sei andato per colpa del temporale?” Mi chiede l’ometto alle mie spalle.

“Non solo per questo.” Gli rispondo.

La piccola mano di Alvaro mi solleva il mento costringendomi a guardare il soffitto, la lama scorre intorno al pomo d’Adamo e vicino alla giugulare. Penso che ci voglia una grande fiducia per accettare che un uomo ti metta una lama alla gola. In un attimo mi potrebbe aprire da una parte all’altra intonando passi del Barbiere di Siviglia con gli occhi iniettati di sangue. Il pensiero mi dà un brivido e mi fa sorridere allo stesso tempo.

“Non solo per questo…” Ripete l’ometto.

“Renata mi ha inviato un messaggio, mi ha scritto che per un po’ non avrà bisogno dei miei servizi.”

“Fatto!” dice Alvaro.

Le mie guance sono lisce come il culo di un bambino, le massaggio delicatamente. Saldo il conto, solo cinque monete distrettuali, e faccio un cenno con la mano per salutare stringendomi con la giacca in pelle.

“Questa estate fa schifo.” Dichiara l’ometto seduto con lo sguardo fisso su un giornale. É piccolo e magro, non ha tradito le mie aspettative.

Appena fuori dal locale il vento si fa sentire sbattendomi a destra e a manca, maledico il fatto di non aver preso la macchina. Non piove, ma il cielo è ancora scuro, solo qualche sporadica schiarita spezza la monotonia all’orizzonte. La strada è deserta, nessuno probabilmente è così idiota da uscire con questo tempo eccetto me… Le foglie si spargono ovunque, si raggruppano negli androni delle case, nei giardini. Anche quello di Renata ne è sommerso, insieme a delle cartacce, lattine e bottigliette in plastica vuote. Osservo la scena, raccolgo con lo sguardo tutti i dettagli possibili di questa desolazione. Si forma dentro di me una strana nostalgia, un senso di angoscia che aumenta quando osservo la finestra della sua Reggia: vuota, chiusa, buia. Ho una strana sensazione di abbandono, come se la mia mamma se ne fosse andata chissà dove. Rido, una grassa risata che nessuno ascolta. Ho fame, il mio stomaco brontola, anche questo lo sento solo io. Faccio due conti mentalmente per capire quanti soldi ho in tasca e decido di mangiare qualcosa al pub.

“Ciao Mik.”

“Chi non muore si rivede.”

Il locale è vuoto. Mik, dietro al bancone, intento a passare con un panno lercio i bicchieri appena lavati, ha lo sguardo perso sulla finestra.

“É spuntato il sole.” Mi dice.

Con calma tiro fuori dalle tasche tutti gli spiccioli per gettarli sul bancone prima di sedermi su uno sgabello.

“Fammi un panino con quello che ti pare e dammi una birra decente. Fatteli bastare.” Gli dico mostrandogli il mucchietto di monete.

 Li conta accuratamente spostandoli con l’indice per poi raggrupparli nel suo pugno.

“Dovrebbero bastare.”

“Prenderò anche una birra da portare via, facci entrare pure quella.”

Non è mai corso buon sangue tra me e Mik, è il tipico uomo che ti guarda dall’alto in basso, forse quei dieci centimetri di pedana sotto i suoi piedi lo fanno sentire al di sopra di tutti. Certo che anch’io non ho fatto grandi sforzi per legare con lui e quella mezza rissa al pub di qualche anno prima, condita di pesanti insulti da ubriacone e lancio di oggetti vari non ha giovato molto al nostro rapporto.

Il panino fa schifo, semivuoto e con il pane un po’ stantio. La birra è buona. Mik ha finito di asciugare i bicchieri e sembra concentrato a far quadrare dei conti con una penna su un blocchetto. Fuori il tempo è cambiato, la luce del sole entra prepotentemente dalla finestra illuminando il locale, mi alzo per sbirciare un po’ all’esterno sorseggiando la mia birra. Solo poche nuvole dai contorni netti su una tavola di un blu intenso.

Sul bancone compare un’altra bottiglia di birra e un bicchierino di brandy.

“Questo lo offre la casa.” Mi dice senza il minimo accenno di un sorriso.

Lo butto giù di un fiato e lo ringrazio prima di uscire.

Mik non dimentica ma forse perdona, è la frase che mi frulla in testa, la lezione che ho imparato oggi. È importante capire le persone che hai intorno. É importante non dare per scontato niente. Questi sono gli unici insegnamenti di mio padre sopravvissuti sui miei neuroni, oltre al ricordo nitido delle sberle e calci in culo assestati sempre al momento giusto.

I pensieri fluiscono liberi accompagnandomi per le viuzze del paese, si mescolano alle voci della gente, si perdono dentro le abitazioni che incontro passeggiando. Immagino le vite degli altri e attribuisco ad ogni ambiente una precisa impronta caratteriale. Solo Nina e Jeff interrompono il mio giochino, impegnati in una discussione riguardante Nello all’altro lato del vicolo, sono così presi dalla cosa da non accorgersi né della mia presenza né del mio timido saluto. Lui le sta accanto con quell’affare al collo pronto a cimentarsi in fraseggi Jazz o roba simile mentre lei lo invita ad allungare il passo. Le persone che discutono si somigliano tutte, ricordo i tanti diverbi con la mia ex, con i miei genitori. Mi vedo lì a stappare l’ennesima birra o a svuotare una bottiglia di whisky cercando di trovare un po’ di pace. Parole, parole e ancora parole. Buttavo giù tutto in un’unica soluzione: birra, whisky, offese, bile, fegato. Sapevo incassare, ero bravo in questo.

Una signora approfitta della mia distrazione per svuotare un secchio pieno d’acqua sporca sul marciapiede. L’acqua che mi entra dalle suole delle scarpe mi dona un attimo di sollievo e un successivo senso di disagio. Se ne torna in casa in tutta fretta, come se non mi avesse notato, come se quel gesto fosse un suo diritto.

“Brutta stronza.” Dico tra i denti. Meglio andare al parco, togliersi le scarpe e rilassarsi un po’.

“E tu, cosa ci fai qui tutta sola?”

La ragazzina è accovacciata con lo sguardo su di un tronco tagliato, intenta ad osservare qualcosa con molta attenzione. Credo di averla vista nella macelleria di Teresa qualche giorno prima. Mi siedo sulla panchina ad un passo da lei e tolgo le scarpe e i calzini per farli asciugare. L’erba secca e le foglie mi solleticano dolcemente la pianta dei piedi mentre butto giù un bel sorso di birra. Non è molto fresca ma dona a tutto il mio corpo e alla mia testa un piacevole senso di benessere. Un leggero venticello mi accarezza i capelli, anche quelli della ragazzina ondeggiano delicatamente mentre osserva il suo tronco senza battere ciglio.

“Cosa stai guardando?” Le dico.

La mia voce la sfiora come il venticello. Il suo corpo è immobile, le mani sulle ginocchia e lo sguardo fisso. Mi sporgo un attimo cercando di seguire la linea del suo campo visivo.

Formiche, impegnate a raccogliere provviste per l’inverno. Un gran viavai che ricorda il traffico intenso all’ora di punta in una grande città. Ecco cosa osserva, ce ne sono a centinaia. Alcune hanno un semino incastrato in bocca che trasportano con fierezza, schivando gli ostacoli e le compagne con estrema abilità. Altre, probabilmente di ritorno dal loro immenso condominio ramificato dentro il tronco, sbucano da fori e crepe per buttarsi a capofitto alla ricerca di altro cibo. La mia mente si ritrova a vagare in questo infinito intreccio di cunicoli e stanze immerse nel buio più nero. Sento i piccoli passi di migliaia di creature in tutta la loro febbrile determinazione, mossi da un potente istinto di sopravvivenza.

Poi un piccolo gruppo di quattro formiche si distanzia dalle altre. Poco distante una formica più ardita cerca di trascinare con estrema difficoltà una grossa briciola di pane e loro le vanno incontro. Si aggrappano a quel macigno di pane per aiutare la compagna. Un paio di loro cercano di alzare il grande bottino, un’altra lo trascina all’indietro muovendo ripetutamente le sue antenne, le altre cercano di direzionarlo sulla giusta via. Perso in questo teatro vivente assegno dei nomi ai miei eroi. Mauro è la formica più forte, quella che da sola tenta di trascinare il bottino. Silvia e Chiara quelle che dirigono. Luca e Napo quelle che sollevano. Un lavoro di gruppo così efficiente da farmi restare a bocca aperta. Svariati tentativi, enormi sforzi e continui fallimenti senza mai perdersi d’animo.

“Hai una sigaretta?”

Alzo lo sguardo su di lui, è Greg, il ragazzino che tutti individuano come il capo di una banda di piccoli delinquenti in paese. Se ne sta in piedi, gracilino e spettinato, aspettando la mia risposta con sguardo serio e impassibile.

“Non sei troppo piccolo per fumare?”

I suoi occhi reggono il mio sguardo, la sua espressione resta intatta e decisa.

“Se me la vuoi dare bene, se non me la vuoi dare ti saluto.”

Sfilo un paio di sigarette dal pacchetto senza abbassare lo sguardo, ne allungo una a lui e una me la infilo in bocca. Greg si avvicina e la prende con garbo, poi si accovaccia davanti a me. Gli passo l’accendino dopo che ho acceso la mia. Restiamo per un attimo a fissarci attraverso una nuvola di fumo.

“Ciao Camilla.” Dice Greg voltandosi verso la ragazzina.

“Dunque si chiama Camilla?” dico.

“Si, è la figlia di Paolo e Teresa della macelleria. La ragazzina muta, o forse la ragazzina che non ha voglia di parlare…”

Ci soffermiamo per un attimo con lo sguardo sul gruppetto di formiche, Mauro continua imperterrito a trainare il suo macigno aiutato dai compagni, hanno percorso si e no un centimetro sul tronco. Camilla sembra assistere alla scena da un altro mondo distante dal nostro.

“La vedo spesso sul bus per andare a scuola.” continua Greg. “Se ne sta sempre in disparte ma è una brava ragazza, non parla, è vero, ma si fa capire quando vuole, forse è solo incazzata un po’ come tutti noi.”

“Vuoi dire incazzata come i membri del tuo gruppo?”

“Non c’è nessun gruppo, nessuno è costretto a fare niente e io non sono il capo di nessuno, se è quello che vuoi sapere.”

“Così non sembra, la gente dice…”

“La gente dice un sacco di stronzate.” Mi interrompe Greg. “La gente pensa che siamo degli sfigati, la gente vede i propri figli come dei pupazzetti da coccolare e riporre in una campana di vetro dopo l’uso. Ci tengono all’oscuro di tutto. Mentre noi vogliamo capire, vedere, sentire.”

Greg aspira una grossa boccata di fumo stringendo leggermente gli occhi, sembra un ragazzo molto intelligente con tanta rabbia dentro. Io lo osservo, cercando di leggere qualcosa tra le righe del suo ragionamento.

“Cosa volete vedere? E cosa c’entra questo con i danni che fate in giro o con il fatto di riempire il mezzo di Nello con le rane?”

 Il volto di Greg tradisce un debole sorriso.

“Come ti ho detto, non siamo un gruppo come lo intendi tu. Nessuno è costretto a partecipare o a fare niente, ma se qualcuno di noi fa qualcosa allora quel qualcosa è fatto da tutti. Per ora la tendenza è quella di farsi notare. Far vedere alla gente che i pupazzi sono usciti dalla campana di vetro. Dopo di che, quello che deve succedere succederà, ma cosa sia non lo sa nessuno, neanche noi.”

Mauro si lascia sfuggire la presa, Luca e compagni tengono duro aspettando che l’amico afferri di nuovo la briciola di pane, pochi attimi di tensione e poi tutto torna alla normalità. Camilla e Greg li osservano come ipnotizzati.

“Qualcuno ha trovato sulla strada principale un pupazzo con la testa sostituita da quella di una rana, legato ad un cartello stradale con dello spago poco fuori dal paese. Ne sai qualcosa? É stato il tuo non-gruppo a fare questo?”

Greg si volta lentamente, i suoi occhi mi scrutano a fondo.

“Noi non abbiamo un futuro. Guardati intorno.” Le sue braccia si aprono per indicare il panorama. “Non la vedi tutta questa desolazione? Non c’è cultura nè poesia, niente tradizioni. Qualsiasi Credo è stato annientato o nel migliore dei casi appiattito, solo le piogge di rane spezzano questo nulla.”

“Vuoi dire che quel coso è una specie di Totem? Qualcosa di sacro?”

“Può darsi, o forse è solo frutto di una bravata adolescenziale…”

Greg si alza e si sgranchisce un po’, si porta il mozzicone di sigaretta alla bocca per un ultimo tiro, poi la getta a terra. Dopo un colpo di tosse mi racconta di suo padre, del suo licenziamento. Lavorava in una grande azienda distrettuale, una di quelle enormi fogne robotizzate che producono surrogati e prodotti a basso costo di ogni tipo. Mi dice che ogni anno dimezzano il personale, che ci stanno sostituendo a poco a poco.

“Chi stanno sostituendo?” dico.

“Noi umani!” Dice Greg sfoggiando sul viso un’espressione sorpresa. “Sai cos’è l’R.D.T?”

“Quel sussidio da fame che ci passa il distretto?”

“Esatto. Quando quel sussidio sarà in grado di farci sopravvivere tutti, non conteremo più un cazzo.”

“Come sai queste cose? Dove prendi queste informazioni dato che sui giornali non ci sono e la rete non è affidabile?”

Greg ride, una risata sarcastica volta a sottolineare la ma ignoranza.

“C’è un mondo sommerso sul Web, un qualcosa che cambia spesso faccia e forma. Un po’ come noi…” mi dice prima di accovacciarsi di nuovo al fianco di Camilla.

Poi le prende la mano. Sono piccole e fragili le dita di Camilla, Greg le sente tremare leggermente mentre le accarezza. I loro sguardi si incontrano, i loro occhi si parlano. Tutto intorno non si muove una foglia, anche quel vento leggero ha ormai arrestato il suo flusso. Ed io, sulla panchina, osservo la scena con la mia birra ormai tiepida fra le mani. Greg le si avvicina ancora un po’, le sussurra qualcosa all’orecchio. Lei si ritrae lentamente, si sofferma con lo sguardo sulle proprie dita, le osserva una ad una per trovare il coraggio. Il suo indice si solleva deciso, pronto ad abbattersi su Mauro e il piccolo gruppo di formiche. Il suo viso si accende di un rossore violaceo e i suoi occhi si stringono in una morsa di rabbia e pianto mentre preme forte.

Restiamo un po’ così, ognuno immerso nel suo mondo lontano. Io ad affogare la mia angoscia, cercando di spingerla a forza nello stomaco con un sorso di birra. Camilla con lo sguardo perso sui pochi resti delle formiche dispersi sul tronco e Greg immobile con lo sguardo assente.

“Te l’ho detto Juri, noi vogliamo vedere. Non vogliamo più i vostri occhiali dalle lenti rosa.”

“Quanti anni hai Greg?” dico dopo una lunga pausa.

“Più di cento.” Mi risponde.

Sul suo volto si forma un sorriso indecifrabile poco prima di andarsene, la sua sagoma scompare tra i vicoli del paese. Camilla si tira su lentamente, si strofina con cura i jeans per pulirli dalle erbacce e si avvia con passo lento e oscillante verso la macelleria. Tutto intorno è il silenzio, l’aria fresca della sera mi penetra nelle ossa. Sulla strada, un uomo si avvicina spedito, è Nello, lo riconosco, è molto alto e cammina con la sua tipica postura un po’ curva.

“Salve Nello. Bella serata eh?” dico.

“Ne ho viste di migliori.”

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