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ep.8 Indietro non si torna

Introduzione di Ivan Nannini

Cosa frulla nella testa di Nello a nessuno è dato sapere. Si aggira per il paese, si ferma al pub, cammina un po’ curvo con la testa bassa. C’è chi lo lascia passare e gli parla alle spalle, chi lo ignora, chi non si fida di lui. Per alcuni è solo l’uomo che toglie di mezzo le rane, quello che viene dal mare, il vecchio pazzo. Per altri è un signore schivo e solitario che sembra nascondere qualcosa. Oggi è una giornata particolare per lui, Nina e Jeff lo stanno cercando, hanno deciso di scusarsi per il disturbo creato da Nicolino. Nina è preoccupata, crede di non poter contare su Jeff e non riesce ad immaginare le possibili reazioni di Nello. Ma lui ha altri pensieri per la mente, altri progetti, da tempo è preso da qualcosa e sa che quel qualcosa gli farà imboccare una strada a senso unico da cui non si torna indietro.

Buona lettura con l’ottavo episodio della serie, rappresentato in copertina da un disegno di Rosario Gulli.

EPISODIO OTTO: INDIETRO NON SI TORNA

di Luigi Pratesi

(Nello)

L’acqua gelida sulla faccia mi aiuta a riordinare le idee. Per questo sono chiuso in bagno, con le maniche di camicia tirate su e le mani a coppa, piene fino all’orlo.

Fino a mezz’ora fa sembrava una serata come tante altre, poi è entrata quella donna insieme all’artista che biascica una parola sì e una no in inglese. Usa il suo strumento in continuazione, strimpella qualche nota e poi riattacca a parlare. Deve essere un modo per affrontare la tensione, come il rumore della macchina Kapler per me.

Fatto sta che parlare con lui è come recitare in un film: c’è sempre la colonna sonora.

La moglie è diversa invece. Caratteri complementari. Mi ha trovato che stavo parlando con Mik, mi ha additato davanti a tutti e poi ha preso a marciare dritta verso di me.

“Salve” l’ho prevenuta.

“Sono felice di averla trovata, devo parlarle.”

“Prenda una sedia.” L’ho invitata cercando di essere ragionevole.

“Non qui, fuori.”

“Ma sto mangiando.”

Sorry man, solo minutino” mi fa lui, portandosi quell’aggeggio alla bocca.

Di minutini a questo modo ne ho vissuti fin troppi in vita mia. Tutto il pub ormai mi stava fissando, ho pensato che fosse meglio fare come diceva lei.

Siamo usciti sulle note di As time goes by. Piaceva a mia moglie quella canzone. Lui si è appoggiato alla parete esterna del pub, lei invece mi si è piantata davanti con le braccia sui fianchi. Mi sono spaventato, almeno fino a quando non ho capito che ce l’aveva con suo figlio. Uno dei teppistelli che si divertono a buttarmi rane morte nell’aspira-rane.

Mi ha chiesto scusa, figuriamoci. Erano almeno vent’anni che nessuno lo faceva. L’ho guardata imbarazzato e ho capito che lei lo era più di me.

Non sapevo davvero che dirle, volevo solo togliermela dai piedi e rientrare. L’ho ascoltata mentre mi assicurava che da quel momento Nicolino non mi avrebbe dato più fastidio, poi l’ho ringraziata e me ne sono andato. Da come mi guardava sembrava sollevata. Che diavolo credeva che facessi, che le tirassi dietro pietre?

È strana la gente. Non le è venuto in mente che se avessi voluto sbarazzarmi di quei mocciosetti mi sarebbe bastato andare dai loro genitori non appena avevano preso a seguirmi? A me quei ragazzi servono.

Certo, se fossi io il padre saprei come raddrizzarli. Probabilmente due ceffoni non guasterebbero, ma più di tutto hanno bisogno di attenzioni. E di uno scopo. Sì, uno scopo. Sono barche alla deriva i giovani, anche a quell’età. Va data loro una rotta, poi bisogna insegnarli come si usa il timone.

Il pilota automatico, nella vita, non funziona quasi mai.

Ma sto divagando. Ero arrivato a quando ho accettato le scuse di quella donna. Maledizione, me ne sono tornato dentro come un salmone che cerca di risalire la corrente. Mi sono seduto sul mio sgabello e ho alzato gli occhi. Quelli di Mik dicevano che non me la sarei cavata così facilmente. Anche quelli di tutti gli altri dicevano la stessa cosa.

“Suo figlio mi ha fatto uno scherzo e lei è venuta a scusarsi.”

Mik mi ha guardato ancora qualche istante, ho capito subito che non mi credeva. Dopo un istante ancora ha fatto spallucce ed è tornato al suo lavoro. Nessuno mi crede mai. Questa volta però sono infastidito. Erano tre mesi che stavo lavorando su Mik. Tre mesi buttati nella tazza del cesso. O nel fondo del lavandino, come l’acqua che sto lasciando scrosciare. In ogni caso, forse, è stato meglio essermene reso conto adesso. Mi crede un bugiardo, il ragazzino. Bah, idiota che non è altro.

Non era poi un ragazzo troppo sveglio, ho pensato per consolarmi, ma poteva ugualmente essere quello giusto. Sì, lui poteva.

Me ne torno dì là, ho deciso. Non ho più molto da fare comunque. Non per stasera. Devo riordinare le idee. Un ultimo sorso di surrogato di birra mi permette di vedere la mia immagine distorta nel fondo del boccale, poi tiro fuori qualche moneta dalla tasca. “Notte Mik.”

Mi fa un cenno con la testa, lo accompagna al saluto militare. Ero un pescatore, mica un marine.

Tiro dritto fino allo slargo della macelleria. Renata è lì, seduta su una panchina, assieme alla sua amica, quella secca che è arrivata un paio di anni fa dal Distretto 9. Non ricordo mai come si chiama. Comunque è facile capire cosa le abbia unite: non fanno altro che parlare di fiori, rose o orchidee che siano. Anche a mia moglie piacevano i fiori. E le piaceva pure Renata.

A me invece convince poco, proprio come la sua amica. Mai una parola gentile. Sterili. Sotto sale come le sardine. Ma forse sono io troppo diverso per capirle. Indosso la salopette blu tutto il giorno, a loro non pende nemmeno un capello. Mondi diversi, anche in un paese piccolo come il nostro può accadere. Mi guardano storto e scommetto la paga del mese che non appena avrò girato l’angolo me ne diranno quattro.

Sono venuto a piedi, devo farmi un paio di chilometri per tornarmene a casa. Che diavolo mi sarà preso, dico io. Mi lascio l’ultima casa alle spalle con i pensieri ancora ammatassati. C’è un giovane nel prato, al bordo della strada. Mi prenda un accidente se capisco che sta facendo, tutto solo, seduto a fumare una sigaretta. Lo riconosco, è il ragazzo che tiene il giardino a Renata. Il figlio di Adele e Lorenzo.

“Salve Nello. Bella serata eh?”

“Ne ho viste di migliori.”

“Sì, anch’io.” Faccio per proseguire. “Però non è male.”

“Mah, alla mia è andato tutto di traverso.”

“Vuole una sigaretta?”

“No, però un sorso di birra lo prendo” gli dico vedendo che ne ha una bottiglia aperta. “E dammi del tu, per tutti i fulmini.”

Mi fa spazio e mi porge la birra. “Grazie.”

“Successo qualcosa al pub?”

Ma perché la gente non si fa mai gli affari suoi? “Mmm, il solito.”

Mi sorride. “Ho visto Nina e Jeff stasera. Stavano parlando di lei. Di te.”

C’è di buono che impara in fretta. “Sì, per via del figlio.”

“È in gamba.”

“Non peggio degli altri, immagino.”

“Non lo so. Può darsi. Però mi piace.”

Lo guardo un po’. Anche alla luce della luna non riesco a leggergli nel fondo degli occhi. Che sia lui? Mi alzo e mi stiro i pantaloni. Domani mattina devo alzarmi presto per portare due rane a Teresa. So che le piaceranno. Quelle che metto da parte, dice, sono sempre le migliori. Mi gratifica farla contenta. E poi mi costa così poco.

Restituisco la bottiglia al ragazzo. “Buonanotte.”

“Buonanotte Nello.”

Lo squadro per un’ultima volta. Forse la serata non è stata del tutto sprecata. Se lo faccio, però, poi indietro non si torna.

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