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Homo narrans: tassonomia umana del sapiens e… sue implicazioni

di Ingrid Atzei

È un pomeriggio d’autunno; io sto seduta in poltrona, davanti alla vetrata con le tende tirate, a leggere L’invenzione del romanzo. Dall’oralità alla lettura silenziosa dell’esperta di letteratura inglese e del secolo XVIII Rosamaria Loretelli. Il sole è caldo il giusto e la luce con la quale mi avvolge somiglia all’incanto di quelle pennellate morbide di bianco e giallo che sfumano in un color tenue… cielo tenue, tipiche dei dipinti di soggetto bucolico che descrivono qualunque scena, dall’incontro amoroso alla venagione, con quell’atmosfera chiara che anima l’intorno composto da differenti tonalità di verde scuro. Quella luce; esattamente quella mi avvolge ora, se la conoscete. Quando leggo e c’è quest’atmosfera m’immagino sempre d’essere seduta an plein air e mi rilasso completamente.

Ad un certo punto, il trillo di un messaggio mi distoglie dal mio sogno campestre. Un amico mi ha appena condiviso un meraviglioso scatto fotografico che ha come protagonista un’ape impollinatrice poggiata lieve sul fiore di una qualche candida liliacea selvatica. L’immagine è poetica e descrive un momento di simbiosi che, grazie al fatto che l’ape ha deciso di nutrirsi, consentirà al polline del fiore di essere trasportato verso altre corolle favorendo, di fatto, la nascita di numerosi semi e di numerosi frutti. Ogni fiore, ma anche ogni seme ed ogni frutto darà vita ad una storia diversa. D’altra parte, quella della foto che osservo è solo una delle tante e, allora, appongo il segnalibro tra le pagine del mio saggio e mi diverto con l’immaginazione ad ipotizzare differenti scenari, ad osservare curiosa i movimenti studiati dell’ape sulla sua mensa colorata e ad unire a quell’attività il suo ronzio mono-tono.

Noi umani non possiamo fare a meno d’immaginare e, nel farlo, pronostichiamo, organizziamo, decidiamo, condividiamo, sogniamo… narriamo. A ben vedere, lo scatto ha fissato un istante preciso; tutto il resto è il risultato di un processo immaginativo condiviso, estrinsecato, partecipato, narrato appunto. Narrare, etimologicamente, significa far conoscere. Quindi, quando narriamo, facciamo conoscere ciò che ci passa per la mente, che si tratti di un’osservazione o di un racconto.

In verità, non siamo gli unici ai quali passa qualcosa per la mente. È, ad esempio, accertato che anche altri animali oltre alla nostra specie sognano, ma noi sapiens siamo gli unici in grado di comunicare l’immaginato, l’immaginario, l’immaginabile e pure l’inimmaginabile. Noi sapiens narriamo, al punto da essere stati definiti pan narrans1 o, come preferisco io, homo narrans. Diversamente detto, ciò che ci connota come esseri umani è esattamente che narriamo e facciamo rientrare tutto dentro una qualche narrazione e… pure più di una. Addirittura, quest’esigenza può essere talmente compulsiva da indurci ad inventare ex nihilo fatti del tutto improbabili, proprio come accadeva a Hyeronimus von Munchhausen, militare tedesco vissuto nel XVIII secolo che ispirò le avventure dell’omonimo e ben più noto barone del romanzo di Rudolf Erich Raspe.

Lee Child
Lee Child

Lee Child, a proposito del narrare, nel suo Eroe, scrive: «A un certo punto quelle donne cominciarono a parlare di cose che non erano accadute a persone che non esistevano. Non era mentire nel senso di mettere in pericolo il valore evolutivo del linguaggio. Era un salto mentale radicale in una direzione completamente diversa, mai tentato prima. Era immaginare un universo parallelo e teorico in cui le cose potevano avvenire in base all’esperienza ma non vincolate dai fatti. In altre parole, inventarono la narrativa. Non sappiamo quando con precisione. La parola orale non è un manufatto che si può scoprire. Va perduta per sempre appena il suo ultimo eco svanisce nel silenzio».

Abbiamo così tante opportunità di narrare e farci narrare che c’è chi considera obsolete le favole della buonanotte preferendo loro la compagnia poco umana di uno smartphone. Cionondimeno, alcune narrazioni, soprattutto quelle che fanno rete (che al dì odierno significa, precipuamente, monitorabili), mantengono il proprio status di essenzialità, dimodoché solo alcune forme di narrazione appaiono epurabili mentre altre possono continuare ad esistere e ad evolversi poiché le si ritiene funzionali, o funzionalizzabili, alla grande narrazione in un’ottica futuristica (il riferimento è al testo omonimo di Klaus Schwab e Thierry Malleret).

La narrazione fa, dunque, parte dell’intrinseca natura umana. Yuval Noah Harari, in Sapiens – Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità, riporta l’ipotesi secondo la quale siamo l’unica specie in grado di far pettegolezzo, ed è proprio questo che ci ha consentito di far evolvere tanto il nostro linguaggio e di fare rete: abbiamo l’umana esigenza di parlare del superfluo! Non dobbiamo necessariamente scambiarci comunicazioni di pericolo o segnali di caccia come se fossimo una specie intimidita; possiamo dedicarci anche all’inessenziale dal punto di vista della sopravvivenza immediata. D’altronde, se ci pensiamo, moltissime delle invenzioni, dal secolo scorso circa ad oggi, che ci appaiono indispensabili nel quotidiano, sono esattamente incentrate su una qualche forma, mezzo o facilitazione narrativa: Internet, Google, Wikipedia, Windows-Office-Explorer, i social, le e-mail, le varie app di messaggistica, Youtube, ma pure il touch screen, l’iPad e Netflix, e tornando indietro il televisore e la radio. E che dire degli e-book?!2 Tutto il nostro quotidiano ruota attorno alla narrazione in una maniera che potremmo definire bombardamento o inondazione (e, se ci fate caso, si tratta di due sostantivi che non rimandano a nulla di buono ma tant’è…)

Sempre Lee Child, nel volumetto già citato, scrive: «Quale è lo scopo della narrazione? Penso che lo si possa sintetizzare in una semplice frase: dare alla gente quello che non ha nella vita vera. In origine erano il coraggio e un senso di sicurezza, adesso è un mucchio di altre cose». Ecco, è proprio quel mucchio di altre cose che deve tenerci ben desti per evitare la manipolazione. Infatti, sempre Lee Child scrive ancora: «La storia, intesa come narrazione … L’intero suo scopo è manipolare». Già, bisognerebbe rifletterci…

Su questo proposito di riflessione, mi ricordo che ho ancora il libro che leggevo adagiato in grembo; poggio il telefono, riapro il volume e torno alla mia lettura pomeridiana. La Loretelli sta spiegando che, oggi, la nostra lettura s’è fatta intima e silenziosa, seguendo un’evoluzione che dal Settecento ai tempi nostri c’ha portato ad impadronirci del testo scritto piuttosto che a fruirlo tramite l’ausilio della lettura altrui fatta ad alta voce, accompagnata dal canto e dalla musica. Dunque, ai tempi nostri fattisi esigenti, per tenerci inchiodati alla lettura, la narrazione dev’essere veloce, agevole, e con un’impalcatura narrativa che ci faccia desiderare: «di sapere come prosegue una storia. L’effetto scaturirà per intero dalle parole». In prima battuta, o quasi, il volume analizza come, nel tempo, siano cambiate:

1. le posture del lettore che, con l’agio del volume ben stampato, in formato agevole ed opportunamente rilegato, può permettersi il totale relax;3

2. e le strutture delle dimore (prevedendo ambienti dedicati ai libri, allo studio, alla lettura intima e, separati, alla condivisione delle impressioni da essa ricavate).

La lettura, dunque, diviene un atto/fatto intimistico e la privacy non viene più vista come un modo per nascondersi ma come uno spazio/tempo di godimento ed acculturazione; la privacy per agevolare piacere e conoscenza. Si trova, infatti, scritto nel testo: «Ecco: nel Settecento … si verifica quella che è stata definita “una delle principali svolte dell’umanità”, vale a dire un ribaltamento assiologico nei confronti del segreto e dell’io privato. L’io privato e i suoi segreti, che nel passato erano oggetto di sospetto e sorveglianza da parte delle autorità religiose e politiche, diventano ora concetti dapprima neutri e poi positivi». Questo è stato possibile, spiega ancora l’autrice, perché dall’idea di racconto come serie di anelli in una catena di episodi narrati si è passati alla metafora della rete/ragnatela: «La metafora è web: rete e ragnatela, fili che si intrecciano e si dipanano; si uniscono in un nodo, per separarsi subito con un distacco però mai definitivo, perché il nodo trattiene e a ogni mossa di un filo l’insieme intero vibra». Com’è ovvio, anche questo dato può essere interpretato secondo punti di vista differenti:

1. la rete crea comunione, unisce, accresce, permea/diffonde;

2. una ragnatela è sempre il regno di un ragno, perciò si deve fare attenzione a non divenirne il pasto, così come la rete è quell’intreccio che, nelle mani esperte del pescatore, diviene la trappola del pescato…

Italo Calvino

Dunque, ogni narrazione è frutto di una scelta operata sui contenuti possibili di una storia e tale scelta impatterà sul lettore. Prendiamo, per esempio, queste poche righe scritte da Italo Calvino e tratte da L’avventura di un lettore: «Amedeo si tolse i sandali, li prese in mano e continuò a correre a piedi nudi con la sicurezza di chi ha occhio per le distanze tra roccia e roccia e una pianta dei piedi che non patisce nulla. Giunse in un punto a strapiombo sul mare. La parete era attraversata a metà altezza da una specie di gradino. Lì, Amedeo si fermò. Su di una sporgenza bianca stese i suoi capi di vestiario piegati per bene e sopra posò, a suola in su, i sandali perché un colpo di vento non avesse a portare via tutto. In realtà, tirava appena una bava d’aria dal mare…» Da qui in poi, potrebbe accadere di tutto nella narrazione; potremmo venire stupiti dagli esiti di un vento che si rafforza oppure lasciare il libro là, placido tra pagine fitte di parole. In effetti, ogni opzione narrativa, prima di concretizzarsi, si è trovata dinnanzi ad un bivio, come nelle storie a bivi ideate per Topolino da Bruno Concina o come negli esempi di narrativa combinatoria (un multiverso ante-litteram) offerti da Jorge Luis Borges. In queste tipologie narrative, la narrazione è moltiplicata, è storia di storie possibili, è interattiva (alle volte più e alle volte meno ma è già, in nuce, offerta creativa al lettore che non vi s’immerge e basta, piuttosto ne diviene co-autore).

La narrazione moltiplicata/moltiplicante è l’esatto opposto della cosiddetta singolarità tecnologica, cioè il momento preciso nel quale l’intelligenza artificiale diverrà superiore a quella umana e competitiva rispetto ad essa. È il momento del salto al post-umano! Nel post-umano la nostra privacy, il nostro silenzio, la nostra singolarità saranno in continuo interscambio con la singolarità moltiplicata della tecnologia. E, dunque, privacy non vi sarà più…

Ho pensato alla singolarità moltiplicata?!… Uhhh, guarda te come sono andata lontano! Questo volume della Loretelli affronta temi che, legati ad un processo diacronico, focalizzano costantemente le caratteristiche del fruitore/lettore moderno, dev’essere per questo che leggo poche righe e parto come la pallina di un flipper a toccare frammenti di riflessioni assai distanti tra loro. Ora, tuttavia, torno al mio presente di lettura e mi rendo conto che la luce attorno a me e sulle pagine del mio libro è cambiata. Il mio sole da scena pastorale è meno caldo e meno avvolgente ed io sono consapevole che mi sta offrendo gli ultimi scampoli di godimento; perciò, mentre continuo a leggere, mi concedo due considerazioni ancora in linea con quanto proposto dall’autrice:

  • il genere d’interazione tra narratore e lettore offerto dalla narrativa combinatoria è l’evoluzione di un processo d’intimizzazione della parola narrata che ha preso le mosse dal ‘700. Già l’invenzione della stampa aveva reso la lettura più semplice e rapida (vogliamo mettere identificare una sequenza di caratteri tipografici ordinati piuttosto che decifrare personalissime grafie su plichi di fogli manoscritti, magari con freghi di correzione?);
  • e poi, l’alfabetizzazione! Dove la mettiamo l’alfabetizzazione che ha consentito di passare dall’ascolto della pagina letta alla lettura personale, singolare ed intima della stessa pagina?
Rosamaria Loretelli

La Loretelli focalizza l’attenzione sul fatto che il differente tipo di fruitore della narrazione (nel caso specifico della sua analisi, il romanzo) e il differente tipo di fruizione (da accompagnato dall’intonazione della voce o dalla musica a silenzioso) ha reso necessario un cambiamento di struttura della narrazione stessa (e la scrittura sul web, in generale, richiede un cambiamento ulteriore!) poiché, senza ausili esterni, la narrazione deve accattivare il lettore solo ed unicamente grazie all’uso sapiente della parola, così da ottenere l’auspicato obiettivo di ogni scrittore e che Calvino ha ben espresso in queste righe, ancora una volta tratte dal volume già citato: «Oltre la superficie della pagina, si entrava in un mondo in cui la vita era più vita che di qua…» E poi:«Nuotava furiosamente o faceva il morto ma il suo cuore era tra le pagine del libro lasciato a riva».

Guardo l’orologio; il mio tempo di lettura, per questo pomeriggio, è terminato e quel che mi rimane dalle mie trasvolate letterarie pomeridiane è la consapevolezza di tutti i poteri della narrazione: informativo, conoscitivo, educativo, curativo (come sa bene qualunque psicoterapeuta), rilassante e manipolatorio. E sono solo quelli che riesco ad enumerare mentre mi alzo dalla poltrona e ripongo il testo nella libreria! D’altronde, che la narrazione fosse uno strumento importante sia per aggiungere consapevolezza che per levarne lo compresero bene fin dal Settecento; infatti, come scrive la Loretelli stessa, con parole che, sebbene riposto il libro nel proprio vano, tengo ancora tra le mani: «È perché la letteratura ha maturato i mezzi per raggiungere l’animo di chi legge in un rapporto individuale, esclusivamente tramite le parole stampate, che il Settecento tradisce inquietudine per l’effetto dei testi, specie se narrativi, sulle persone ritenute fragili e condizionabili. E a volte sono le stesse donne a preoccuparsi del nuovo potere acquisito dal libro sulla mente umana. Lo fanno a ragione, temendo la forza “troppo seducente, troppo futile, troppo pericolosa” dei romanzi e “lo stimolo, la spaventosa eccitazione della loro lettura”». E ancora:«I paesi cattolici invece resistono ancora un po’ alla diffusione della lettura, soprattutto quella dei romanzi. Se la paura del potere manipolatorio della narrativa serpeggia dovunque in Europa, la cultura cattolica si consocia in Italia con il classicismo per elevare solidi baluardi: la classe dei letterati, in parte composta proprio da uomini di Chiesa, si mostra restia ad accettare infrazioni alle ‘regole’ pseudoaristoteliche e fortemente timorosa per la morale. Il romanzo viene sentito come un pericolo, proprio in quanto ha il potere di soggiogare il lettore…»

Ecco, ciò detto e a ‘sto punto, tanto per non lasciarmi sfuggire l’occasione di citare l’impareggiabile Antonio Lubrano di Scampamorte, la domanda sorge spontanea: romanzo a parte, nei tempi nostri, che la narrazione l’hanno assurta a genere esistenziario più che letterario, di che cosa dobbiamo e possiamo godere e a che cosa dobbiamo e possiamo fare attenzione per usufruirne e goderne senza esserne soggiogati e manipolati? Urge riflessione… ma sarà per un altro pomeriggio in solitaria.

  1. Qua pan sta per il genere di primati ricomprendenti alcuni tipi di scimmie. ↩︎
  2. Per chi avesse dei bimbi in età scolare è, a tal proposito, interessante e molto agevole il progetto di Wired pubblicato da Salani Editore intitolato ↩︎
  3. A tal proposito l’autrice cita il noto incipit di Italo Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore. Ve ne riporto anch’io un estratto selezionato: «… Prendi la posizione più comoda: seduto, sdraiato, raggomitolato, coricato. Coricato sulla schiena, su un fianco, sulla pancia. In poltrona, sul divano, sulla sedia a dondolo, sulla sedia a sdraio, sul pouf. Sull’amaca, se hai un’amaca. Sul letto, naturalmente, o dentro il letto. Puoi anche metterti a testa in giù, in posizione yoga. Col libro capovolto, si capisce. Certo, la posizione ideale per leggere non si riesce a trovarla. Una volta si leggeva in piedi, di fronte ad un leggio. Si era abituati a stare fermi in piedi. Ci si riposava così quando si era stanchi d’andare a cavallo. A cavallo nessuno ha mai pensato di leggere; eppure ora l’idea di leggere stando in arcioni, il libro posato sulla criniera del cavallo … ti sembra attraente». ↩︎

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