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Passi e parole: il camminare come forma di scrittura

di Marco Mastrorilli

Camminare è forse l’azione più semplice e radicale che l’essere umano compie.
Un gesto elementare, ma capace di trasformarsi in atto filosofico, spirituale, narrativo. Sin dall’inizio della nostra storia, ci muoviamo a piedi per cercare, conoscere, attraversare e spesso, proprio in quel movimento lento, il pensiero si fa più nitido. La scrittura, in molti casi, nasce dopo, o durante, una camminata. Forse anche a voi è capitato.

Eling Kagge

Eling Kagge, ad esempio, scrive nel suo libro Camminare (Einaudi, 2018) un pensiero che possiamo condividere tutti: camminare dà un senso di libertà. È contrario a tutto quel che spinge “ più veloce, più in alto, più forte”. Quando cammino tutto si muove più lentamente, il mondo sembra ammorbidirsi, e per un breve momento non inseguo i miei impegni quotidiani: i lavori di casa, le riunioni, le letture dei manoscritti in ufficio. Camminare è una zona franca.

Esiste davvero una relazione tra il cammino e la scrittura?

Camminare può divenire un pensiero in movimento, Henry David Thoreau, nel suo breve e famosissimo saggio Camminare (SE, 1989), vedeva nell’atto del camminare una forma di resistenza e di libertà.
Camminare in un ambiente naturale significava per lui uscire dal mondo costruito, razionalizzato, capitalistico.
Un’azione era tornare a essere selvatici, cioè autentici. “Camminare per me non significa fare esercizio,” scrive, “ma entrare in uno stato spirituale.”

Pubblicato postumo nel 1862, il saggio Camminare (Walking) di Henry David Thoreau è uno dei testi fondativi della riflessione moderna sul camminare.
In questo libro di poche pagine emerge un contenuto breve ma intenso, Thoreau non parla semplicemente di un’attività fisica, ma di un atto quasi spirituale, che riporta l’uomo a contatto con la sua natura più autentica e selvaggia.

Per Thoreau, camminare è un’arte e una vocazione. È una forma di libertà che permette di evadere dalla “civiltà” e di riconnettersi con il selvatico (the Wild), una forza che non è solo naturalistica, ma anche simbolica: è ciò che è ancora vivo, non domato, non meccanizzato.
Camminare, in questo senso, è un gesto di ribellione interiore verso la società moderna, che tende a confinare l’essere umano in ruoli, orari, proprietà.

Vorrei dire una parola a favore della Natura, della libertà e del selvaggio, in opposizione alla libertà e alla cultura puramente civili, considerando luomo come un abitante o una parte e un pacco della Natura, piuttosto che un membro della società.”

Il camminatore ideale, secondo Thoreau, è il saunterer, termine che lui stesso fa derivare da “Sainte Terre” (terra santa), come i pellegrini medievali che camminavano verso Gerusalemme.
Non un semplice passeggiatore, ma qualcuno che ha una meta sacra nel proprio errare.

Ma la vera “terra santa” per Thoreau non è un luogo lontano: è ovunque ci si possa riconnettere con il mistero e la libertà del mondo naturale.
Il cammino diventa così pensiero incarnato: il corpo si muove, ma anche la mente procede per associazioni, divagazioni, intuizioni. Il filosofo Nietzsche diceva di non fidarsi dei pensieri nati da seduti.
Lui stesso camminava per ore sulle montagne cercando una verità che avesse respiro, ritmo, ossigeno.

Il cammino non è solo lo sfondo di molte opere letterarie: è anche il motore della loro nascita.
Lo dimostra Camminare. Un gesto sovversivo (Einaudi, 2018) di Erling Kagge, esploratore norvegese, che racconta come il semplice atto di muovere i piedi sia diventato oggi qualcosa di straordinario, quasi controcorrente. In un’epoca di velocità, produttività e iperconnessione, il cammino è uno spazio di sottrazione. Camminare, come scrivere, diventa un modo per rallentare, ascoltare, respirare, pensare.

Scrittori come Bruce Chatwin, Werner Herzog o Rebecca Solnit hanno fatto del cammino un vero e proprio linguaggio.

Scrivere è spesso un lavoro solitario, come camminare.
Entrambe le pratiche richiedono attenzione, ascolto, un tempo proprio. Il passo può suggerire la cadenza di una frase, l’andatura di un racconto. Camminare consente di uscire da se stessi, ma anche di tornare dentro. Il silenzio della camminata è pieno di parole in potenza.
Scrivere, dopo tutto, è dare forma a ciò che il cammino ha sussurrato.

In Storia del camminare (Ponte alle Grazie, 2018), la scrittrice californiana Rebecca Solnit racconta come il gesto del camminare abbia influenzato la filosofia, l’arte, la politica. Dai pellegrinaggi religiosi al flâneur urbano, ogni cammino è un modo di leggere e riscrivere il mondo.

Solnit scrive in Storia del camminare: “Quando ci concediamo ai luoghi, essi ci restituiscono a noi stessi e, più arriviamo a conoscerli, più vi seminiamo l’invisibile messe delle memorie e delle associazioni che saranno lì ad aspettarci quando vi ritorneremo, mentre luoghi nuovi ci offriranno pensieri nuovi e nuove opportunità. Esplorare il mondo è uno dei modi migliori per indagare la mente, e il camminare percorre entrambi i terreni”

Camminare è una pratica democratica, accessibile, ma anche profondamente trasformativa.
È un gesto che ci restituisce alla terra, e che ci ricorda che abbiamo un corpo e una direzione.

A volte anche le storie di camminatori sono importanti per stimolare le nostre idee e speranze di trovare un filo conduttore nella nostra scrittura.

Federico Pagliai nel suo libro Ambasciatori della bellezza (Tarka edizioni, 2024), opera premiata quest’anno al Premio letterario Green Book,  ha scritto un resoconto davvero emozionante nella ricerca di persone capaci di regalare ispirazioni e una di queste si affida ad un camminatore particolare, il “cacciatore di viottoli”, Sauro Ducci, come così descritto da Pagliai nel suo libro: C’è un uomo  che quassù sugli Appennini, spende quasi tutte le sue giornate a camminare per viottoli, carrarecce e sentieri. Lo fa con andatura dinoccolata ma elegante e lo sguardo rivolto in basso come a rintracciare impronte e storie, a ripercorrere i passi che lui e altri hanno compiuto e tornare così a mettersi in ascolto dei luoghi che sono stati abbandonati. È un camminatore seriale. È il cacciatore dei sentieri. Più che sentieri, direi viottoli […].

La scrittura non nasce sempre dalla meditazione statica. Molti autori camminano per pensare, per immaginare, per comporre. Jean-Jacques Rousseau dettava alcuni dei suoi testi mentalmente mentre passeggiava. Walser scriveva micro-racconti durante le sue lunghe passeggiate nei boschi. Jack Kerouac percorreva le strade d’America annotando visioni e parole in movimento.

Il cammino può diventare scrittura anche in senso letterale: il diario di viaggio, il taccuino del pellegrino, il blog del viandante. Ogni passo è un segno sulla pagina del mondo. Il percorso disegnato sul terreno diventa narrazione, come un filo che tiene insieme spazio e tempo.

Forse uno più di altri ha saputo perpetrare questo messaggio.
Nel panorama della letteratura contemporanea sul viaggio e sul camminare, Bruce Chatwin (1940–1989) occupa un posto tutto suo. Nomade per vocazione e narratore per necessità, Chatwin ha saputo fondere la camminata reale con una scrittura errante, fatta di divagazioni, connessioni, miti e storie.
Per lui, il cammino non è mai solo movimento nello spazio, ma anche ricerca di senso, di bellezza, di verità narrativa. Scrivere, come camminare, è un modo di vedere il mondo, di ricomporre l’invisibile.

Bruce Chatwin

Per Chatwin, camminare non è solo spostarsi: è vedere meglio. Camminando, i sensi si affinano, l’attenzione si acuisce. Si entra in uno stato di coscienza più ricettivo, in cui ogni dettaglio può diventare racconto. Questo fa del cammino una disciplina estetica e cognitiva. Non a caso, scriveva spesso mentre camminava, o subito dopo.
Portava con sé taccuini Moleskine su cui annotava tutto: storie ascoltate, descrizioni, sogni, appunti etnografici. La scrittura nasceva sul campo, come eco del cammino stesso e nei suoi taccuini, pubblicati postumi in Che ci faccio qui? (Adelphi, 1990) e Anatomia dellirrequietezza (Adelphi, 2005), Chatwin sviluppa un’autentica filosofia del nomadismo. Secondo lui, l’essere umano non è fatto per stare fermo. La stasi lo snatura, lo avvelena. Il movimento, al contrario, lo riconnette con la propria natura più profonda.

Oggi, nell’era della globalizzazione e del turismo veloce, il viaggio tende a essere consumato in fretta, ridotto spesso a una sequenza di immagini da condividere. In pochi istanti tutto finisce su Instagram, nei vlog di viaggio, tra video e hashtag che, sempre più spesso, sostituiscono e talvolta superano la parola scritta.

Ancora oggi tuttavia, la stesura di un racconto o un diario di viaggio narrato può farci entrare in confidenza e un’empatia insuperabili con le emozioni trasmesse da un luogo.

La parola scritta è resiliente come il libro cartaceo che non si è fatto divorare dall’ebook e per questo le parole vanno di pari passo con il desiderio di scoprire un luogo camminando lentamente.

La domanda mi viene spontanea, anche come confronto personale, a voi camminare aiuta a creare percorsi narrativi brillanti e inediti?

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