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ep.7 Chi sei?

Introduzione di Ivan Nannini

Quante cose facciamo per i nostri figli? Quanto sappiamo effettivamente di loro? Quanto la nostra linea di pensiero coincide con la loro realtà? Ma soprattutto: quanto influiscono i cambiamenti epocali come ad esempio le “tempeste di rane” sui tratti generali delle nuove generazioni? Se vi siete chiesti almeno un tre quarti di tutto questo, continuate a seguire la nostra serie. Il nostro Nicolino è nei guai, lo sguardo dei “grandi” lo sovrasta, è combattuto, disorientato. Si sente vittima e carnefice, complice, probabilmente trascinato in qualcosa di ingiusto, ma anche accolto da un gruppo di ragazzi più grandi di lui. È il paradosso che si porta dentro, i due lati della medaglia, il bene e il male sintetizzati in un’unica soluzione, una miscela che risiede negli esseri umani, nel profondo di tutti noi.

Buona lettura con il settimo episodio della serie, rappresentato in copertina da un disegno di Rosario Gulli.

EPISODIO SETTE: CHI SEI?

di Tommaso Aramaico

(Nina)

“Chi sei?”. Punto gli occhi in quelli di Nicolino, che cerca di sfuggirmi. Stringo ancor più la presa sulla sua mandibola. Il reticolo di vene verdognole si gonfia sul dorso della mano sinistra. Sono mancina, io. Di quelle recidive, testarde, che hanno dovuto subire, e vincere, violenti tentativi di correzione. Jeff non osa aprire bocca. E fa bene. Gli occhi di Nicolino sono velati, non più quelli del bambino che piagnucola quando la madre minaccia di togliergli l’amore, non ancora quelli che vengono attraversati dal lampo fuggevole della sfida aperta.

“Chi sei?”. Forse sto esagerando. Lo sento nello stomaco in fiamme che sto montando questa storia fino a farne una tragedia. Lo vedo in Jeff che si aggrappa a quel maledetto sassofono. Lo colgo nel tremore della mia mano che stringe Nicolino sotto al mento. Non resisto. È troppo persino per me, che sento di essere ormai fuori di testa. Mollo la presa e sgrano gli occhi sulle chiazze bianche che per qualche secondo segnano le sue guance altrimenti perfette, di porcellana. Poi il sangue torna ad affluire e il segno della violenza, quella ai danni del corpo, svanisce. In lui? Voglio morire, ma non posso. Vedo tutto, noto tutto. Il gesto trattenuto della sua mano che vorrebbe portare al viso per donarsi una carezza che possa in qualche modo compensare la ferocia materna, la mia ferocia. Le labbra che premono un istante. Il pomo d’adamo che segnala l’amaro boccone che sta mandando giù. Ho appena spinto mio figlio lontano da me di qualche metro, nello spirito. Ho paura, ma devo recuperare la domanda e andare avanti.

“Chi sei?”. Qui non si tratta più di me, di Jeff, di questa storia delle rane o dello strano incantesimo che ci tiene incatenati qui a FN314. Qui si tratta di Nicolino. “Stia attenta al bambino, signora”. Posso ancora sentirle, le parole della signora della macelleria. Carne, carne, sempre carne. Jeff e le sue bistecche al sangue. Mi assale la nausea solo all’immagine di lui che prende la carne con le mani e morde, il sangue che gli pittura le labbra e la lingua. Lo detesto. “Stia attenta” ha detto Teresa mentre, con precisione chirurgica, lasciava cadere la mannaia fra le giunture di non so quale bestia. Non poteva guardarmi perché doveva fare per bene il suo lavoro. Non voleva guardarmi perché sapeva, così come tutti sanno, che alle volte perdo la testa.

Ero uscita a cercarlo, perché è vero che questo posto è un buco in cui non succede mai nulla, ma è pur vero che Nicolino ha dieci anni e una madre, a un certo punto, avrà pure il diritto di sapere dove è andato a cacciarsi e cosa sta combinando il figlio. Le ho detto di mettermi da parte la carne, alla signora Teresa, e sono schizzata fuori dalla macelleria. Si gira in tondo, qui dove tutto sembra a portata di mano, dove quello che cerchi non può essere trovato, perché forse gira in tondo proprio come te, insieme a te.

Nicolino sembra voler parlare, ma non trova il coraggio per farlo. Jeff è ancora chiuso in sé, schiacciato dal suo stesso silenzio. Fuori dalla macelleria avevo continuato a cercare. Teresa aveva fatto cenno ad altri ragazzi, più grandi di Nicolino, ragazzi che non le andavano a genio. Ma io non capivo chi potessero essere e mentre giravo a vuoto mi sono ritrovata a sentire altre voci e bisbiglii. Tutti a me arrivavano. Iniziavo a cogliere un’intenzione in fondo a tutto quel vociare. Si parlava di vasi rovesciati, piante sradicate e cancelletti sfondati. La signora Renata piangeva nel suo giardino vandalizzato, “Sono ragazzi di un altro quartiere”, diceva, “E non so se c’è pure qualcuno di qua”, aveva aggiunto lanciandomi uno sguardo. L’aveva fatto veramente o me lo ero inventato? Era venuto prima il suo sguardo o la mia comprensione di quanto stava accadendo?

“Chi sei tu?” insisto. Qui nessuno osa aprire bocca, “Che mi dici del giardino della signora Renata? E del cartello stradale scomparso all’incrocio della macelleria?”. Non parla. “E di quello che aspira le rane? Sai dirmi qualcosa di lui e delle brutte cose che gli stanno capitando ultimamente?”. Lo vedo, sta vacillando. Non capisce come io possa sapere tante cose. Ha capito che è fottuto, ma la verità è che con lui, proprio adesso, anche io ho compreso. Io che in fondo non sapevo nulla, fino ad un minuto fa, adesso so che Nicolino è parte di questa storia. Nessuna fonte segreta, nessuna soffiata. Mi sono limitata a sparargli in faccia parte del brutale elenco di cose che hanno fatto incazzare un bel po’ di gente e lui ha confessato con i suoi occhi di bambino di dieci anni, con il corpo asciutto e tremolante, con le labbra umide. Dovrei fargli la ramanzina, tipo che non deve mai dare fastidio agli altri, ed è quello che sto per fare, ma forse dovrei essere onesta e dirgli che in fondo è a me che non deve rompere le palle, che non me ne frega niente del giardino di quella vecchia o del tipo che aspira le rane o di cosa pensa la signora della macelleria. A me interessa che non si metta nei guai perché è un bambino e, di fatto, per la proprietà transitiva delle responsabilità, le sue colpe sono automaticamente le mie e di nessun altro. Non sue, non di Jeff su cui non posso fare affidamento, essendo lui poco meno di un uomo. Mie, solo mie.

Batto gli occhi senza volerlo. “Parla”, gli ordino, ma senza urlare o ringhiare. E Nicolino, non so perché, inizia a parlare veramente. Rompono le palle, lui e quei ragazzini che fatico a visualizzare, al tipo che aspira le rane. Parla di un certo Greg, che forse è il capo del gruppo. Riesce a parlare senza mettersi a piangere. Vomita fuori la storia del giardino devastato, ma mi giura che lui non c’entra nulla con la questione del cartello stradale all’incrocio. Dice di non saperne nulla.

“Bene”, dico, sempre severa e prendendo la borsa. “Bisogna andare a chiedere scusa a un po’ di persone”. Nicolino sospira, ma sa di non aver scelta. Pure Jeff si muove. Dopo minuti interminabili sembra che solo adesso abbia ripreso a respirare. Lo guardo, senza dire una parola. Farfuglia qualcosa di incomprensibile. Vuole venire anche lui. Continuo a fissarlo, sempre senza parlare. Cerca di dire che è il padre del ragazzo, ma io continuo a fissarlo. Abbassa lo sguardo sul sassofono. Sembra aver finalmente compreso che lui non può venire.

Prima di chiudere la porta alle mie spalle gli lancio un ultimo sguardo per assicurarmi che non si sia mosso e che non cerchi di seguirci. Mi sta fissando e il suo volto pare diverso. Spigoloso e più pallido del solido, con le mani affondate nelle tasche mi sta fissando a sua volta. “Vengo anche io”, dice. Arretro d’un passo, d’istinto. “Va bene” rispondo. Mi volto per non guardarlo, cercando la mano di Nicolino, che la ritrae. La porta di casa sbatte e il tremore violento che la scuote è lo stesso che attraversa anche il mio corpo. Mi volto. Jeff è dietro di noi. Sorride. I suoi occhi sembrano quelli di sempre.

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